29.11.13

ROAD TO JAPAN: Toshihiro Aoyama

Benvenuti ad un altro numero di "Road To Japan", la rubrica del mio blog che prova a darvi uno sguardo sui nuovi talenti che stanno crescendo nella terra del Sol Levante. Nell'undicesimo numero di quest'anno, ci spostiamo a centrocampo per parlare di un ragazzo che sta facendo molta strada negli ultimi anni. E che, forse, ne potrà fare ancora in quelli a venire: sto parlando di Toshihiro Aoyama, regista dei Sanfrecce Hiroshima.

SCHEDA
Nome e cognome: Toshihiro Aoyama (青山 敏弘)
Data di nascita: 22 febbraio 1986 (27 anni)
Altezza: 1.72 m
Ruolo: Regista, centrocampista centrale
Club: Sanfrecce Hiroshima (2003-?)



STORIA
Nato a Kurashiki, nella prefettura di Okayama, Toshihiro Aoyama è legato indissolubilmente al Sanfrecce Hiroshima. In una squadra che fa della fedeltà un marchio di fabbrica, lui rappresenta uno dei soldati più meritevoli. Sulle rive del Takahashi, Aoyama sembra indirizzarsi verso il pattinaggio. Invece, poi, prende la strada del calcio ed appende le scarpette al chiodo. Il ragazzo cresce nel liceo Sakuyō, prima di ritrovarsi cercato da molti club di J-League. La sua non è la favola del predestinato, ma di colui che ha lavorato duro per raggiungere il livello palesato negli ultimi anni. Rientrato nei giocatori speciali designati dalla J-League, il ragazzo si trasferisce al Sanfrecce Hiroshima. E' il 2003: a gennaio 2004 è ufficialmente un giocatore del club, ma passeranno tre anni prima che possa giocare la sua prima gara da professionista.
Viene provato anche come terzino destro, ma la rottura del legamento crociato anteriore nel marzo del 2005 lo mette fuori gioco per molto tempo. La vera svolta arriva nell'estate del 2006: una volta recuperato, a guidare il Sanfrecce c'è Mihailo Petrović, tecnico serbo. Quest'ultimo mette Aoyama al centro del suo progetto tecnico e lo fa maturare negli anni. Un infortunio - stavolta alla falange di un dito del piede - l ofa mancare per molto tempo dal campo ed il club scende in J2. Nonostante la retrocessione del 2007, Aoyama rimane e anche il suo allenatore lo tiene in mezzo al campo, con tanto di promozione immediata.
Al ritorno in J-League, il Sanfrecce ha tenuto un buon livello: il quinquiennio Petrović ha portato il club in Champions League asiatica e a giocare un ottimo calcio, nonché esportare alcuni giocatori in Europa (vedi Tadanari Lee e Tomoaki Makino, seppur con esperienze sfortunate). Non Aoyama, invece, che è rimasto alla corte di Hiroshima quando sulla panchina viola è giunto Hajime Moriyasu. Il tecnico, ex giocatore del club, ha capito che Aoyama era fondamentale per il suo 3-5-1-1, folto di centrocampisti e di tanti movimenti. Su questi, i lanci del numero 6 viola erano la chiave per il gioco spettacolare che si è visto in quest'ultimo biennio. Non solo: con Moriyasu, Aoyama è stato importante per la vittoria della J-League nel 2012, per altro segnando contro il Cerezo Osaka, nel giorno della vittoria decisiva per il titolo. Inoltre, ha vinto anche la Supercoppa nipponica qualche mese fa (già ottenuta dai Sanfrecce nel 2008). La bacheca si è arricchita ed il regista è stato inserito nella Top 11 della J-League dell'anno passato. In questa stagione, invece, i sogni di titolo sono già finiti (o quasi); tuttavia, le soddisfazioni per Aoyama non sono mancate, specie in nazionale.

CARATTERISTICHE TECNICHE
Per Aoyama, forse la definizione migliore è arrivata da chi lo ha allenato per diversi anni e lo ha fatto conoscere un po' d più al calcio giapponese. Mihailo Petrović, suo tecnico per molte stagioni, lo ha definito come «il motore» della squadra. E ha ragione a dirlo: Aoyama ha iniziato la sua carriera da "volante", come lo definirebbero in Inghilterra. Ossia un centrocampista a tutto campo, capace di correre ovunque; poi, il numero 6 dei Sanfrecce ha raffinato la sua tecnica ed è stato capace di giocare anche da regista. In tal modo, la sua visione di gioco poteva esprimersi al meglio. C'è chi ha detto che Gaku Shibasaki sia l'erede di Yasuhito Endo in nazionale (lo stesso Yatto lo ha confermato). E se invece fosse il turno di Aoyama? Del resto, il centrocampista si è costruito anche una reputazione in fatto di gol spettacolari: basti pensare alla rete nella FIFA World Cup per club contro l'Auckland City o l'incredibile marcatura contro gli Yokohama F. Marinos nel maggio 2012.

STATISTICHE
2004 - Sanfrecce Hiroshima: 0 presenze, 0 reti
2005 - Sanfrecce Hiroshima: 0 presenze, 0 reti
2006 - Sanfrecce Hiroshima: 21 presenze, 2 reti
2007 - Sanfrecce Hiroshima: 35 presenze, 1 rete
2008 - Sanfrecce Hiroshima: 41 presenze, 5 reti
2009 - Sanfrecce Hiroshima: 34 presenze, 4 reti
2010 - Sanfrecce Hiroshima: 29 presenze, 0 reti
2011 - Sanfrecce Hiroshima: 30 presenze, 2 reti
2012 - Sanfrecce Hiroshima: 41 presenze, 3 reti
2013 - Sanfrecce Hiroshima (in corso): 38 presenze, 2 reti

NAZIONALE
Con qualche anno in meno, Aoyama fece qualche presenza per l'Under 23 nipponica: durante le qualificazioni alle Olimpiadi di Pechino del 2008, il centrocampista fece un'ottima impressione. Poi l'infortunio al piede rovinò il suo sogno olimpico e così Aoyama ha dovuto attendere molto prima di vestire nuovamente la maglia della nazionale. Quest'estate, però, si è messo addosso quella della "Nippon Daihyo". Per la Coppa dell'Asia Orientale, Zaccheroni ha voluto sperimentare alcuni nuovi giocatori e anche il metodista del Sanfrecce ha avuto la sua occasione. 65' contro la Cina, 90' contro la Corea del Sud: non è stato convincente, ma chissà che non abbia un'altra chance. Tre posti su quattro della mediana nipponica sembrano ormai prenotati per il Brasile (Hasebe, Endo e Yamaguchi): diciamo che lui e Hosogai si giocano il quarto, salvo sorprese.

LA SQUADRA PER LUI
Indubbiamente, il ragazzo è all'apice della sua carriera. Da un anno e mezzo gioca alla grande, dopo aver militato più che dignitosamente in J-League per molto tempo. A 27 anni, potrebbe spiccare il volo verso lidi più luminosi: tuttavia, ipotizzare un trasferimento è veramente complicato, perché Aoyama - come spiegato in quest'articolo - è legato a doppio filo alla realtà di Hiroshima. Per prenderlo, ci vorrebbe un progetto davvero convincente: del resto, il suo valore si attesta intorno al milione di euro. Altrimenti, sarà difficile che il centrocampista lasci il Sanfrecce ed un posto da protagonista, dopo dieci anni di militanza con il club. Comunque, non c'è dubbio che uno con i suoi piedi e la sua visione di gioco farebbe comodo a chiunque.

25.11.13

Il goleador fascinoso.

Chiunque mastichi un po' di calcio internazionale conosce bene Olivier Giroud. Bomber di razza, si è trasferito all'Arsenal dopo l'exploit a Montpellier. Eppure nessuno gli ha mai dato troppo credito. Ora l'attaccante francese si sta prendendo qualche rivincita: l'Arsenal va alla grande e lui è uno dei pezzi fondamentali di questa squadra. La sua doppietta al Southampton ne è un esempio.

Nonostante i dubbi, Giroud si sta affermando anche all'Arsenal.

Nato a Chambéry, nella regione tra il Rodano e le Alpi francesi, Giroud può finalmente dire di aver scalato un'altra montagna. A 27 anni, si ritrova in nazionale - qualificatasi ai Mondiali di giugno 2014 - e con un ruolo importante nel suo club. E non uno qualsiasi, ma uno dei top team della più importante lega professionista del mondo. 
Tanta la strada percorsa da quando era ragazzo a Grenoble, il primo club che gli diede un'opportunità. Tuttavia, a Istres il giovane Giroud comincia a farsi notare, nel terzo livello del calcio francese. Poi ci il biennio a Tours, dove sopratutto la seconda stagione con il club - 24 gol - lo portò all'attenzione del Montpellier, che l'ha prelevato con sei mesi d'anticipo per due milioni di euro.
L'intuizione del Montpellier si è rivelata poi vincente. Al primo approccio con la massima divisione, Giroud non si è tirato indietro e ha contribuito alla crescita della squadra. Nel primo anno, il club è riuscito a raggiungere la finale di Coupe de la Ligue, sconfitto dall'Olympique Marsiglia; Giroud, intanto, ha realizzato 14 reti tra Ligue 1, coppe ed Europa League.
Ha fatto meglio l'anno successivo, quando il Montpellier inizia una leggendaria cavalcata in una stagione che rimane unica nella storia del club. Di fronte alla squadra di René Girard, c'è il ricchissimo Paris Saint-Germain, acquistato quell'estate dagli emiri qatarioti e rinforzati da molti acquisti. In più, alla guida della squadra arriva Carlo Ancelotti. Insomma, per il Montpellier sembra un'impresa impossibile.
Non però con l'aiuto di Giroud: 25 gol stagionali, nove assist e titolo di capocannoniere della Ligue 1 certificano la definitiva cresciuta del ragazzo che veniva da Grenoble. A fine anno, allo "Stade de la Mosson" si festeggia il primo titolo della storia, con tre punti di vantaggio sul PSG: un vero miracolo sportivo. La squadra viene però smembrata e il "goleador fascinoso" - come lo ribattezzò "Le Parisien" dopo una doppietta al Brest - è il primo indiziato a lasciare la Francia.
Il presidente del Montpellier, l'eccentrico Moullin, a gennaio 2012 non lo lascia partire per meno di 50-60 milioni di euro; sei mesi dopo, dovrà accontentarsi. Infatti, l'Arsenal vuole l'attaccante per rinforzare la colonia francese dei Gunners e lo prende per 12 milioni di euro. Una responsabilità importante anche per lo stesso Giroud, che dovrà sostituire in qualche maniera i gol di Robin van Persie, che nella stessa estate è partito per Manchester, direzione United.

Tutti i gol di Giroud nel biennio a Montpellier.

Arrivato a Londra, sembrava che l'arrivo di Giroud fosse stato messo un po' da parte, quasi come un acquisto qualsiasi. Nessuna esperienza fuori dalla Francia, per carità, però il ragazzo avrebbe meritato un pochino più d'attenzione. Si vedeva che era in crescita e che, alla lunga, potesse rivelarsi un investimento giusto. 
Del resto, il centravanti ha ricevuto anche l'attenzione della sua nazionale: l'allora ct Laurent Blanc non ha esitato a chiamarlo sul finire del 2011, quando Giroud stava stupendo con il Montpellier. Lui stesso non ci ha messo molto a confermarsi, segnando un gol contro la Germania in amichevole: questo lo ha portato ad essere nei 23 che hanno partecipato a Euro 2012. 
Da lì, Giroud ha avuto modo anche di dare una piccola speranza alla Francia di evitare i play-off per i Mondiali, con il gol del pareggio al "Vicente Calderon" contro la Spagna. Insomma, il centravanti è uno che colpisce vittime eccellenti e chissà se, con il Mondiale brasiliano alle porte, Giroud non possa trovare il modo di stupire ancora.
Per quanto riguarda la sua forma all'Arsenal, la prima stagione è stata d'ambientamento. Dopo un inizio difficile, il francese ha cominciato a segnare: alla fine dell'anno, il risultato è stato soddisfacente. Doppia cifra raggiunta sia in stagione che in Premier League (17 gol totali) e buon contributo nelle coppe nazionali. 
Inoltre, Giroud ha confermato la capacità di giocare per la squadra: gli undici assist non sono stati affatto casuali, ma frutto del suo mettersi al servizio dei compagni. I tifosi hanno imparato ad apprezzarlo, tanto da parodiare la famosa "Hey, Jude" dei Beatles: «Na, na, na-na-na, na-na-na, Giroud», cantano spesso i tifosi all'Emirates Stadium. 
La seconda stagione sta andando decisamente meglio: l'ambientamento è ormai concluso e Giroud è parte integrante della squadra. Anche nei momenti più bui, come dopo la sconfitta nella giornata inaugurale di Premier per mano dell'Aston Villa, il francese si è distinto, segnando il più possibile, come con la doppietta contro il Southampton, confermando il primo posto dell'Arsenal in campionato. 
Dopo tre mesi dall'inizio della stagione, il francese ha già deciso il derby contro il Tottenham e segnato contro squadre del calibro di Napoli e BVB. La conta totale dei gol stagionali è a dieci in 19 gare. E il meglio, per il "goleador fascinoso", forse deve ancora venire.

Olivier Grioud, 27 anni, ha fatto la storia con il Montpellier, vincendo la Ligue 1 nel 2011-12.

22.11.13

Undici anni dopo.

Sono passati undici anni da quel 5 maggio 2002, ma ci siamo di nuovo. No, non stiamo parlando della débâcle interista e dalla vittoria juventina per lo scudetto. Mi riferisco all'ultimo istante in cui Chievo e Hellas, le due squadre di Verona, hanno condiviso la stessa categoria. Dopo undici anni, si sono ritrovate e ora torna anche il derby scaligero: una stracittadina che ha solo due precedenti in A, ma che solletica i palati degli appassionati. Anche perché, rispetto ad un decennio fa, la situazione è completamente rivoltata.

24 marzo 2002, Chievo-Hellas 2-1: questo l'ultimo incrocio in A tra le due squadre.

Già, perché il Chievo non ha più quel carattere da favola e quindi comincia ad essere più indigesto agli appassionati di Serie A. Intanto, l'Hellas si è distinto per un inizio di stagione fantastico (sei vittorie su sei in casa) e vola in zona europea. Una bella rivincita per la squadra di Andrea Mandorlini, che ha vissuto un decennio da incubo. Quel 2001/2002 fu fatale all'Hellas, che vinse uno dei derby, ma finì per retrocedere all'ultima giornata. Una compagine con nomi in squadra come Oddo, Camoranesi, Gilardino e Mutu finì in B dopo il 3-0 subito a Piacenza nell'atto finale di quel campionato. Proprio mentre il Chievo viveva la sua prima stagione in A, conclusasi con la Champions sfiorata e la conquista di un posto nella vecchia Coppa UEFA. Da quel momento in poi, le strade delle due compagini si sono divise: mentre il Chievo viveva stagioni più o meno tranquille in A, l'Hellas faceva fatica in cadetteria.
Nel 2007, poi, ci fu un altro spartiacque. Il Chievo, grazie a Calciopoli, riuscì a centrare la qualificazione ai preliminari di Champions League nel 2006: un'avventura che, però, venne affrontata con un organico inadatto persino per la qualità del Levski Sofia, giustiziere dei gialloblu. Anche in Coppa UEFA, la partecipazione del "Céo" durò un unico turno. Se il Chievo piangeva, l'Hellas non rideva di certo: il campionato di B era partito male e finì anche peggio. Intanto, la squadra di Delneri (tornato all'ovile) non riuscì a salvarsi e finì in cadetteria all'ultima giornata, dopo il 2-0 subito dal Catania, in una sorta di scontro diretto. Sembrava il ripetersi di quanto accaduto all'Hellas cinque anni prima e i cugini già assaporavano il derby, se non fosse che il destino si abbatté duro anche sulla squadra più conosciuta di Verona. La differenza reti condannò l'Hellas a giocare i play-out contro lo Spezia: un 2-1 totale per i liguri condannò incredibilmente la squadra alla Serie C, dopo ben 64 anni.
Da quel momento in poi, Hellas e Chievo hanno seguito un percorso parallelo. Il "Céo" si è riguadagnato la Serie A in una stagione, vincendo il campionato di B e sopravvivendo serenamente per tutto questo tempo. Spesso la società di Campedelli ha festeggiato la salvezza nella massima serie con anticipo. Un merito da ascrivere agli allenatori che ha avuto, ma sopratutto a quello che io ritengo il maggior artefice di questi miracoli: il suo d.s., Giovanni Sartori, una sorta di mago del calciomercato. Per l'Hellas, il travaglio è stato lungo e doloroso: retrocesso in C, il club partì per stravincere la terza divisione nazionale e finì ultimo. Un paradosso incredibile, con la squadra benedetta dai play-out solo per la differenza reti migliore nei confronti del Manfredonia. Poteva essere la fine, invece fu l'inizio: la salvezza ottenuta a Busto Arstizio diede modo alla società di riorganizzarsi. Dopo una stagione di transizione, l'Hellas ha sfiorato la promozione: dopo esser stato in testa per tutto il campionato, il Portogruaro batté gli scaligeri e volò in B. Nei play-off, altra sconfitta con il Pescara e niente promozione. Il pubblico gialloblu - sempre attaccatissimo alla squadra - subì una fortissima delusione. Il 2010/2011 rischiò di essere un'altra catastrofe, ma l'arrivo di Mandorlini consentì l'aggancio ai play-off prima e poi la vittoria in questi ultimi, in un infuocato doppio scontro con la Salernitana.

Eugenio Corini, 43 anni, è tornato al Chievo: lui ha giocato i derby di Verona nel 2002.

Nell'ultima stagione, Hellas e Chievo hanno fatto il loro. I primi, dopo un anno d'esperienza in B, hanno dominato il campionato e hanno ottenuto l'agognata promozione in A. I secondi, con Eugenio Corini in panchina, si sono salvati con largo anticipo e senza troppi travagli: l'obiettivo, da sempre, della società di Campedelli. Peccato che la situazione delle due squadre adesso sia completamente rivoltata rispetto ad un decennio fa. L'Hellas accarezza il sogno europeo, dopo aver fatto sei su sei in casa in quanto a vittorie. Inoltre, Mandorlini ha confermato che Luca Toni è sempre un goleador di razza. Ha riportato Iturbe in auge, dopo che il talento argentino si era perso al Porto. Ha valorizzato Cacciatore, i giovani Martinho e Jorginho. Persino gente che la Serie A l'aveva vista solo in tv - come Maietta, il capitano - sembra poter dare il suo contributo. E in questo quadro, il tecnico è stato fondamentale. La sua carriera come allenatore non riporta grandi successi, se non in quel di Bergamo e in Romania: si è però venuta creare la giusta sinergia tra ambiente e l'uomo.
Discorso ben diverso per il Chievo, che sembra veramente rischiare. Già ad inizio campionato la compagine gialloblu era tra le candidate alla retrocessione, ma quand'è che non lo è mai stata? Semmai, la forza di Pellissier e compagni è stata sempre rivoltare i pronostici iniziali. Inoltre, non era cambiato molto in estate al Chievo, perciò si supponeva che Sannino potesse bastare per la salvezza. In realtà, nonostante il massimo impegno da parte dell'allenatore campano, il Chievo ha faticato molto. Con la stessa formazione ed un Pellissier sempre più relegato ai margini, la salvezza sembra lontana: non a caso, il "Céo" è ultimo in classifica. A quel punto, è arrivato l'esonero per Sannino, nonostante la squadra fosse in ripresa. E' ritornato Eugenio Corini, che l'anno scorso aveva salvato (e bene) il Chievo: riuscirà nuovamente nell'impresa?
Adesso torna il derby, undici anni dopo gli unici due giocati in Serie A. Le due squadre si spartirono la posta con una vittoria a parte. L'Hellas vinse quello d'andata, dopo esser andato sotto per 2-0, complici le reti di Eriberto (Luciano) e proprio Corini su penalty. Nella seconda frazione, la compagine di un esaltato Alberto Malesani riuscì addirittura a vincere: rigore di Oddo, autorete di Lanna e marcatura decisiva di Camoranesi. Al ritorno, con il Chievo in lotta per l'Europa e l'Hellas per la salvezza, il copione fu invertito. Il 24 marzo del 2002, il "Céo" rimontò lo svantaggio dell'Hellas (gol di Mutu) e trionfò con la doppietta di Federico Cossato. Da quel momento in poi, nessun incrocio. Sabato si ricomincia: undici anni dopo, lo spettacolo è di nuovo pronto per il "Bentegodi". Ci divertiremo, non c'è dubbio.

Andrea Mandorlini, 53 anni, è dal 2011 all'Hellas, con ottimi risultati.

20.11.13

Egosistemi disturbati.

Doveva conquistare il mondo, invece guarderà l'ennesimo Mondiale dalla tv: per Zlatan Ibrahimović è un periodo in chiaroscuro. Continua a stupire il mondo con le sue magie nei club per cui gioca, ma in nazionale ciò che fa non basta. Anche ieri, la doppietta nello spareggio contro il Portogallo di Cristiano Ronaldo non sarebbe comunque bastata alla Svezia per andare in Brasile. E se CR7 ha realizzato la tripletta decisiva e Ribery ribalta l'incredibile passivo contro l'Ucraina, per Ibra è una sconfitta. L'ennesima a livello nazionale.

Ibrahimović e C. Ronaldo: solo il portoghese sarà al Mondiale brasiliano.

Già, perché - ridendo e scherzando - Ibrahimović non vede un Mondiale dal 2006. E quella in Germania non fu certo un'avventura esaltante. Belli i tempi in cui la Svezia non aveva bisogno di stupire, come nel 1994: al Mondiale americano, gli scandinavi arrivarono terzi con un gran bel calcio, fatto di Martin Dahlin e Kenneth Andersson, di Thomas Ravelli e Henrik Larsson. Che non avranno fatto gol di scorpione o colpi da urlo, ma hanno dato forse qualcosina in più in termini di contributi alla nazionale svedese. Una rappresentativa che era arrivata anche in semifinale nell'Europeo del 1992. In fondo, alcuni di questi Zlatan li ha anche conosciuti: forse in pochi se lo ricordano, ma Ibrahimović ha già giocato due fasi finali del Mondiale. Se nel 2006 era già conosciuto e tutti se lo ricordano, l'asso del PSG c'era anche nel 2002, quando la Svezia era tra le 32 squadre che parteciparono alla Coppa del Mondo in Giappone e Corea. Era uno "sbarbatello": solo i veri intenditori di calcio lo conosceva e fece anche un paio di apparizioni. Ma quella squadra si basava sui reduci di USA '94 e su esperti: gente valida come Larsson, Patrik e Andres Andersson, Svensson più stelle come Ljungberg. In quella selezione, Ibra ottenne due comparsate contro Argentina e Senegal, da subentrante. Ciò nonostante, la Svezia riuscì a passare il cosiddetto "gruppo della morte": Inghilterra, Argentina e Nigeria. Gli scandinavi buttarono fuori i sudamericani, prima di farsi eliminare con il "golden gol" dal Senegal. Andò ugualmente nel 2006, quando Ibrahimović era più affermato e forte, ma la Svezia uscì agli ottavi contro i padroni di casa della Germania.
Ben diversa è stata la nazionale svedese dopo che i veterani si sono ritirati. I ricambi erano buoni, ma non abbastanza; tuttavia, qualcuno pensava che Ibrahimović potesse bastare per ottenere i risultati avuti nel precedente ventennio. Non è andata così: all'Europeo del 2008, la Svezia non è riuscita neanche a passare il girone, battuta dall'ottima Russia di Guus Hiddink e dalla Spagna, poi campione della manifestazione. Il Mondiale del 2010, così atteso, in realtà è stato visto dalla tv da Ibra e compagni: Danimarca prima nel girone, Portogallo secondo, Svezia terza. Neanche gli spareggi per Ibrahimović. Così, si è arrivati all'estate del 2012 e all'ultimo Europeo: la Svezia ci arrivò bene, visto che era riuscita a qualificarsi da migliore seconda, in un girone che comprendeva l'Olanda. Arrivati in Polonia ed Ucraina, Ibrahimović e compagni non sono riusciti ad andare oltre la vittoria su una Francia quasi qualificata. Le sconfitte contro l'Ucraina di Shevchenko e l'Inghilterra sono costate la qualificazione, potenzialmente possibile. E non è andata meglio negli ultimi tempi. Pescata la Germania, è arrivato il pass per gli spareggi mondiali. Il sorteggio con il Portogallo di Cristiano Ronaldo non è stato dei migliori, ma i lusitani - duello Ibra vs. CR7 a parte - si equivalevano sostanzialmente con gli scandinavi. Ne è uscito un doppio confronto in cui l'asso del Madrid ha fatto ciò che voleva: per Ibra, niente da fare.

Il 21enne Ibrahimović (a destra) al Mondiale di Giappone & Corea del 2002.

E così, per la prima volta in trent'anni, nessuna nazione scandinava sarà al Mondiale. E se per la Finlandia era normale immaginarlo, così come per Norvegia e Danimarca in fase di ristrutturazione, la Svezia aveva buone speranze tramite gli spareggi. Battere la Germania nel girone era impensabile, poi l'urna ha punito i gialloblu con il Portogallo. Ma era il test finale per Ibra: vincendo, avrebbe dimostrato che è in grado di trascinare anche la nazionale da solo. E' stato critico così tanto nei confronti di chi gli è davanti in termini di considerazione planetaria - Messi e la sua capacità di trascinare l'Argentina - che la qualificazione sembrava obbligatoria, dopo anni di parole. Che lui, autoproclamatosi Dio nella conferenza prima della gara di ieri, dovesse (e potesse) portare la Svezia di nuovo al Mondiale. Invece, niente da fare neanche stavolta: a 33 anni nel prossimo giugno, la chance per un'altra rassegna mondiale sembra difficile da concretizzare. Più facile che giochi il suo quarto Europeo, seppur alla veneranda età di 35 anni.
Ora lancio la provocazione: ma non sarà che Ibra è un po' sopravvalutato? C'è chi dice, spesso, che lo svedese sia il terzo giocatore più forte del mondo, dopo gli insuperabili Messi e Cristiano Ronaldo. Forse è tempo di sfatare questo mito: fare giocate straordinarie non ti rende necessariamente migliore degli altri. I risultati sì. Falcao ha deciso due Europa League ed una Supercoppa Europea quasi da solo; Iniesta e Xavi hanno reso il Barcellona la squadra più forte del mondo e la Spagna imbattibile; persino i sottovalutati (manco troppo) Rooney e Eto'o hanno vinto Champions. Non sarà che Ibrahimović, ego e campionati vinti a parte, sparisca in campo internazionale? Zero Champions, anzi il Barcellona nel 2010 non la vinse proprio grazie alla difficile coesistenza tra l'asso svedese e Messi. Il Mondiale non lo vedrà più e agli Europei la Svezia non è andata mai oltre i quarti di finale sotto la sua guida. Anzi, due volte su tre non ha neanche superato la fase a girone. E non è detto che partecipi ad una quarta competizione continentale. Ibra potrebbe rispondermi che la squadra deve essere forte, ma per chi si paragona a Dio come scusa regge poco.
Dopo la gara, l'attaccante del PSG ha praticamente annunciato che lascerà la nazionale: «Per me è stato l'ultimo tentativo per provare a raggiungere il Mondiale con la Nazionale, Sicuramente d'ora in poi quando giocherò non penserò alla Nazionale». In effetti, Ibra non è più futuribile: un Mondiale nel 2018 sembra troppo difficile per lui. Anche se ci sarebbe da ricordargli che la nazionale ha vissuto benissimo anche senza di lui; anzi, forse anche con risultati più validi. Poi la chicca finale a suggellare il profilo del personaggio: «Un Mondiale senza di me è poca cosa, non c'è davvero nulla da guardare e non vale nemmeno la pena aspettarlo con ansia». Sarà come dice lui. Del resto, la competizione più importante e che arriva ogni quattro anni non vale la pena di esser vista. Forse è la frase normale di un calciatore che ha di che "rosicare". Diciamo che la carriera di Ibrahimović, più che per i successi, rischia di esser ricordata per la creazione di un nuovo ente: gli ecosistemi disturbati. E lui, a giudicare da tali dichiarazioni, ha diritto al copyright.

Zlatan Ibrahimović, 32 anni, non sarà al Mondiale: ultima chance?

15.11.13

UNDER THE SPOTLIGHT: Roberto Jiménez Gago

Benvenuti a tutti per un altro numero della mia rubrica "Under The Spotlight", lo spazio che mette in evidenza i talenti che potrebbero esplodere in giro per l'Europa. Oggi mi soffermo su un ragazzo un po' in là con gli anni: non può essere più considerato un giovane, ma è comunque sulla cresta dell'onda. Inoltre, nel ruolo in cui gioca, è come il vino rosso: si migliora andando avanti con l'età. Sto parlando di Roberto Jiménez Gago, estremo difensore dell'Olympiacos.

SCHEDA
Nome e cognome: Roberto Jiménez Gago
Data di nascita: 10 febbraio 1986 (età: 27 anni)
Altezza: 1.92 m
Ruolo: portiere
Club: Olympiacos (2013-?)



STORIA
Classe 1986, Roberto Jiménez Gago è un prodotto del vivaio dell'Atletico Madrid, con cui ha potuto esordire fin da giovanissimo. Grazie a numerosi indisponibili nel ruolo, Roberto esordì nel dicembre 2005 con la maglia dei "colchoneros" a soli 19 anni. Chiuso nel proprio club, il portiere fu poi prestato nel 2007/2008 al Gimnàstic di Tarragona, in seconda divisione spagnola. I risultati furono così buoni che le porte dell'Under 21 "roja" si aprirono al giovane Roberto. A quel punto, tornato a Madrid, l'estremo difensore venne girato al Recreativo Huelva, che però lo utilizzò solo in Copa del Rey. Così, l'Atletico lo riprese e lo tenne in casa per la prima metà del 2009/2010: qualche piccola apparizione, finché il giocatore sente il bisogno di crescere altrove. Stavolta la meta del prestito è Zaragoza, che sarà importantissima nella carriera del portiere: Roberto fa una buona impressione, ma torna comunque alla casa madre.
Alla fine, qualcuno decide di credere nel ragazzo: il Benfica acquista Roberto per otto milioni e mezzo di euro: una cifra enorme, comprendente una clausola rescissoria di venti milioni. Nonostante questo e le tante partite giocate in quella stagione portoghese (41 presenze), alla fine Roberto perde il posto nel finale dell'annata. I lusitani arrivano in semifinale di Europa League e della coppa nazionale, ma lo spagnolo ha ormai ceduto il suo posto al sole ad Artur, l'ex portiere della Roma. Con l'arrivo anche di Eduardo dal Genoa, Roberto decide di tornare in Spagna. La destinazione è nuovamente Zaragoza: i "blanquillos" hanno molta fiducia in lui e lo ricomprano per la stessa cifra spesa dal Benfica nell'estate precedente. Se nella prima annata è arrivata la salvezza, nel 2012/2013 il club ha sofferto per la retrocessione dalla Liga. Roberto è diventato capitano del Real, ma le sue parate non sono bastate per evitare il peggio. Così, l'uomo dei ritorni si è nuovamente ritrovato a Madrid, sponda Atletico: i "colchoneros" l'hanno ricomprato per sei milioni di euro e lo hanno immediatamente ceduto in prestito all'Olympiacos. In Grecia, lo spagnolo sta facendo una grande stagione: basta rivedersi qualche video delle prime gare di Champions League (ha pure parato un rigore ad Ibrahimovic). I suoi miracoli contro il Benfica hanno garantito agli ellenici una buona fetta di qualificazione agli ottavi di finale.

CARATTERISTICHE TECNICHE
Lestissimo tra i pali, Roberto è l'ennesimo prodotto della scuola spagnola. Tuttavia, l'attuale estremo difensore dell'Olympiacos si differenzia un po' per il gioco palla al piede: non è un Pepe Reina o un Victor Valdes, ma ricorda più Iker Casillas. Non è un fenomeno con i piedi, ma un grandissimo nelle movenze tra i pali. In più, ad aiutarlo ulteriormente c'è la personalità, che a Roberto non manca per nulla. Dovrebbe migliorare un po' nelle uscite, ma in Champions con i greci ha già mostrato notevoli segnali di miglioramento sotto questo punto di vista.

STATISTICHE
2004/2005 - Atletico Madrid: 0 presenze, 0 reti subite
2005/2006 - Atletico Madrid: 1 presenza, 2 reti subite
2006/2007 - Atletico Madrid: 0 presenze, 0 reti subite
2007/2008 - Gimnàstic: 28 presenze, 35 reti subite
2008/2009 - Recreativo Huelva: 2 presenze, 3 reti subite
2009/2010 - Atletico Madrid: 4 presenze, 9 reti subite
2009/2010 -  Real Zaragoza: 15 presenze, 17 reti subite
2010/2011 - Benfica: 41 presenze, 46 reti subite
2011/2012 - Real Zaragoza: 40 presenze, 64 reti subite
2012/2013 - Real Zaragoza: 33 presenze, 51 reti subite
2013/2014 - Olympiacos (in corso): 14 presenze, 8 reti subite

NAZIONALE
Di certo, la situazione per Roberto non è facile. La nazionale spagnola, una volta, non aveva super-portieri: c'era il vecchio Andoni Zubizarreta e quello doveva bastare. Oggi, invece, la Spagna straborda in quel ruolo, dove ci sono le certezze (Iker Casillas, Victor Valdes, Pepe Reina, Diego Lopez) e le promesse (su tutte, de Gea). In questo quadro, è difficile pensare ad un futuro in nazionale per lui. Roberto ha fatto tutta la trafila nelle giovanili della Spagna, fino all'Under 21. Poi si è fermato. Chissà che, tra qualche anno, con l'invecchiamento delle certezze che ho citato sopra (tutti sopra i trent'anni già ora), non ci sia spazio anche per questo portierone. Che, forse, merita più attenzione dalla sua madre patria: la Spagna lo ha spesso coccolato, ma alla fine l'ha lasciato andare fuori per emergere.

LA SQUADRA PER LUI
Se volessimo fare i pignoli, in realtà, Roberto una squadra ce l'ha già. L'Olympiakos lo ha preso in prestito, ma chissà che i greci non pensino a riscattarlo a fine anno. Sarà comunque complicato, vista l'attuale situazione economica in terra ellenica, ma il club potrebbe provarci. Se non andasse a buon fine l'affare, Roberto resta un giocatore di proprietà dell'Atletico Madrid, con cui l'estremo difensore spagnolo è sotto contratto fino al 2017. Simeone l'anno prossimo perderà Courtois, che tornerà (e aggiungo finalmente) a "Stamford Bridge", alla corte del Chelsea. Così, si pensa che Roberto potrebbe essere anche il suo successore. La terza ipotesi è che qualcuno, con molti soldi, veda il talento del ragazzo e se lo prende di corsa: farebbe comodo a chiunque.


12.11.13

Luci (ed ombre) a San Siro.

Ci sono il bene e il male, la luce e l'oscurità, il buono ed il cattivo. A giorni, Massimo Moratti si prepara a consegnare l'Inter nelle mani di Erick Thohir (70% del capitale interista va al magnate indonesiano) e già si fa un bilancio generale della sua presidenza. I numeri sono buoni, ma forse l'esaltazione nei confronti del fu presidente nerazzurro è diventata eccessiva: guardando la sua reggenza ventennale, qualche appunto mi sento di farlo. Specie se si considera quanto e come si è speso in questi anni.

Massimo Moratti nel 1995: il 25 febbraio acquista ufficialmente l'Inter.

Partiamo dai numeri, che sono freddi e calcolatori, ma che ci consegnano un quadro d'insieme. L'Inter, sotto Moratti, ha portato a casa cinque campionati (compreso quello discusso del 2005/2006), quattro Coppe Italia, quattro Supercoppe Italiane, una Champions League, una Coppa UEFA ed una FIFA World Cup per club. Sono ben sedici trofei: non male. Tuttavia, una prima considerazione si può fare sul fatto che, di certo, l'Inter di Moratti jr. non lascerà la stessa impronta di Moratti sr.: il padre di Massimo, Angelo, creò di fatto la "Grande Inter", allenata da Helenio Herrera. Una squadra che vinse molto meno di quella di tempi più recenti, ma che forse rimase consegnata alla storia per la capacità di fare un grandissimo gioco già nei lontani anni Sessanta.
Se si torna alla realtà, questo quasi "ventennio" - termine purtroppo consueto nel vocabolario italiano - rimarrà alla storia per alcune cose positive, ma anche per tante negative che ormai si tendono a dimenticare. Il popolo italiano, anche in fatto di pallone, tende ad essere molto smemorato. E il presidente Moratti non si è certo smentito: dopo la vittoria in Champions nel 2010, disse che un sistema aveva impedito alcune sue vittorie. Sicuramente il sistema c'era, ma non danneggiava solo l'Inter. Tanto per fare un esempio, il 5 maggio 2002 non è accaduto certo per colpa della cosiddetta "cricca" di Moggi e compagnia bella. E poi va ricordato come il presidente Moratti non sia certo uno stinco di santo: il presidente nerazzurro ha sempre criticato i comportamenti altrui, ma non ha mancato di essere sleale a modo suo. Lo scorso settembre, l'Inter è stata condannata - insieme a Telecom Italia - per aver spiato Bobo Vieri: insomma, fare il santo non è facile per il Moratti nerazzurro.
Se diamo poi un'occhiata al campo, c'è lo strano fenomeno italiano di cancellare quanto avvenuto nei suoi primi dieci anni di presidenza e considerare solo quelli dopo l'estate del 2006. Perché quell'estate ha rappresentato lo spartiacque dell'Inter morattiana. Fino a quell'anno, l'Inter ed il tifoso nerazzurro erano sbeffeggiati perché il fan interista era quello che sognava sotto l'ombrellone. Quello che parlava apertamente di scudetto, salvo poi doversi rimangiare tutto già a primavera. Quello che si vedeva in squadra Ronaldo, Baggio e Vieri nella stessa stagione e che poi doveva accontentarsi di un quarto posto. Quello che vedeva il suo presidente spendere 500 milioni di euro fino al 2002, per vincere un solo trofeo. Insomma, non proprio il prototipo della squadra vincente. Ormai, il tifoso interista era più una barzelletta o un essere umano da compatire: nessuno che segua il calcio merita le sofferenze che quel tipo di supporter ha vissuto nel primo decennio dell'era Moratti. Poi è arrivata Calciopoli, con le sentenze che forse hanno pure salvaguardato troppo gli imputati dell'epoca. Però, sarebbe ingiusto negare che quello tsunami non abbia aiutato la situazione dell'Inter. Al di là del vantarsi dell'essere "gli onesti", il club nerazzurro da lì ha vinto il 75% dei trofei che si sono alzati nella gestione di Massimo Moratti. I numeri sono freddi, ma sono imbattibili.

22 maggio 2010: l'Inter torna vincere la Champions e Moratti la solleva.

Proprio per questo, nella prima parte della presidenza del padrone della Saras si trovano i traumi più grandi. Fino al 2006, il club nerazzurro diventa quasi un divertimento per i tifosi altrui. Il primo trauma si registra nella data del 21 maggio 1997: l'Inter si gioca la finale di Coppa UEFA, nell'ultima edizione che fu giocata con la formula dell'andata/ritorno. Dopo l'1-0 subito dallo Schalke 04 in terra tedesca, l'Inter rimontò grazie al gol di Zamorano, ma il nervosismo era alle stelle. Hodgson e Zanetti quasi alle mani fu solo l'antipasto. Ai rigori, dopo 120' di fatiche, i nerazzurri persero grazie a due errori di Zamorano e Winter: coppa ai tedeschi e primo psicodramma "morattiano". La vittoria sempre in Coppa UEFA del 1998 mitigò leggermente uno delle partite simbolo dell'era Moratti: Juventus-Inter del 26 aprile di quell'anno. L'Inter arrivò da seconda in classifica al "Delle Alpi" e passò in svantaggio per un gol di Del Piero. Poi il pata-trac: contatto netto tra Iuliano e Ronaldo, ma niente rigore. L'azione prosegue e West stende Del Piero: stavolta il penalty c'è. E poco importa che Pagliuca lo pari: la furia nerazzurra ancora oggi ha valicato i confini dello spazio-tempo. A questa va aggiunta la perla delle perle: il 5 maggio 2002. Con un punto di vantaggio sulla Juve e due sulla Roma, l'Inter buttò scudetto e qualificazione diretta alla Champions nell'ultima giornata del campionato 2001/2002. All'"Olimpico" di Roma, una Lazio ormai demotivata ebbe la meglio del club di Moratti: le lacrime di Ronaldo e la delusione dei tanti supporters dell'Inter (di cui ricordo l'arrivo alla stazione Termini quella mattina: ero piccolo, ma passammo di lì) rimasero nella storia. A queste pietre miliari, vanno aggiunte le stagioni 1998/1999 e 2000/2001, che furono dei veri e propri psicodrammi estesi per un'intera annata (il 6-0 subito dal Milan nel derby fu il punto più basso dell'era Moratti).
Poi, dopo il 2006, tanti successi e la ritrovata capacità di costruire qualcosa. Quattro campionati vinti nel quadriennio tra il Mondiale tedesco e quello sudafricano, di cui due dominati. Nel 2008 e nel 2010, invece, si rischiò qualcosa: in entrambi i casi, la Roma fu campione d'Italia per qualche minuto, prima di vedersi svanire il sogno davanti. I giallorossi furono l'antagonista principale di quegli anni: il Milan arrancava, la Juve tornava sfasciata dall'incubo Calciopoli e la Fiorentina non era abbastanza forte per arrivare a quei livelli. In più, c'è stata la ribalta europea: con Mancini non si è potuto costruire molto, ma con Mourinho le cose sono cambiate. E' arrivato addirittura il "triplete", con vittorie in campionato, Coppa Italia e Champions League. Il 22 maggio 2010 l'Inter alzò la terza Champions League, dopo ben 45 anni di digiuno. Tuttavia, Moratti ha dovuto rovinare tutto un'altra volta: quei quattro anni perfetti non potevano durare per sempre, ma l'Inter fece tanti errori. Via Mourinho, si poteva smantellare con intelligenza: vendere Maicon al Real per un pacco di milioni è meglio che regalarlo due anni dopo al Manchester City... invece, l'amore ha prevalso sulla ragione. Così, l'Inter ha fatto molta fatica negli ultimi tre anni: un secondo, un sesto ed un nono posto. Sei allenatori diversi, tanti milioni spesi e poche soddisfazioni, come la Coppa Italia del 2011 ed il Mondiale per club vinto ad Abu Dhabi. Ora si riparte con Thohir: la gara contro il Livorno di sabato sera è stata l'ultima da presidente per Massimo Moratti. Che rimarrà presidente per molti dei tifosi, ma che forse dovrebbe guardarsi allo specchio prima di farsi beatificare: non sempre ci son state solo le luci a "San Siro".

Massimo Moratti, 68 anni, parla con l'allenatore interista Walter Mazzarri, 52.

9.11.13

L'anno buono.

E' un anno di sorprese. Non c'è dubbio che, guardando la classifica della Premier League, ti aspetteresti il solito duello tra le due squadre di Manchester, con José Mourinho a dare fastidio con il suo Chelsea. Invece, il panorama è ben altro: il Liverpool ritrovato, la conferma dell'Everton dei pochi soldi e Villas-Boas che riprova a vincere qualcosa. C'è sopratutto una novità: l'Arsenal è in testa. Non solo: la vittoria di martedì sul campo del Borussia Dortmund vice-campione d'Europa dice che i londinesi hanno forse ritrovato la competitività che mancava da un po' di tempo.

Mesut Özil, 25 anni: il suo arrivo ha cambiato il gioco dell'Arsenal.

Intendiamoci: non è che all'improvviso l'Arsenal fosse diventato scarso. Del resto, 15 qualificazioni consecutive alla Champions League non giungono per caso. Tuttavia, era sembrato che i "Gunners" fossero ormai sul viale del tramonto: solo cessioni, guai per i rinnovi contrattuali e tante magagne per il buon Arsène Wenger, che sembrava anche sul punto di andarsene nella scorsa primavera. E' dal 2005 che non si vede un trofeo sulla bacheca del club e la sconfitta di due anni fa nella finale di League Cup contro il Birmingham è ancora nella mente di molti. Quest'estate, l'Arsenal avrebbe potuto spendere molti soldi sul mercato: si parlava addirittura di "tesoretto" da spendere, visto che il club aveva concluso il pagamento della costruzione dello stadio in cui adesso si giocano le partite interne dell'Arsenal. Un'intera estate a flirtare con una marea di nomi: tra i più clamorosi, c'erano quelli di Gonzalo Higuain e Luis Suarez. Poi anche David Villa, il giovane Bernard, Fellaini, ma anche Jovetic. Niente da fare: ce ne fosse stato uno dei sopracitati che fosse arrivato all'Arsenal durante l'ultima estate. Così, dopo tanta rincorsa, alla fine i "Gunners" hanno stra-pagato (nonostante un grande rendimento in campo) Mesut Özil all'ultimo giorno di mercato, versando ben 45 milioni di euro nelle casse del Real Madrid. Per il resto, è tornato Mathieu Flamini ed è arrivato il giovane bomber francese Yaya Sanogo.
E pensare che la stagione, per come era partita, sembrava rispecchiare le difficoltà avute in sede di mercato. L'1-3 subito dall'Aston Villa all'"Emirates" nella prima di campionato ha fatto sì che Wenger si beccasse immediatamente i fischi dei suoi tifosi. Ora, quei fischi sembrano lontani ricordi: la squadra ha saputo mettere insieme una striscia di ben nove risultati consecutivi in campionato. Otto vittorie ed un pareggio che fanno 25 punti pesantissimi in questo momento, con i quali l'Arsenal si colloca in testa alla Premier League. Oltretutto, in questo bottino vanno incluse le importanti vittorie casalinghe contro Tottenham e Liverpool. Due rivali per il titolo, già battute in maniera abbastanza convincente; un altro test è in arrivo domenica, quando i "Gunners" affronteranno il Manchester United di David Moyes. Intanto, i tifosi possono godersi una macchina perfetta anche in Europa: partita dal preliminare, la squadra di Wenger ha letteralmente affossato il Fenerbahce. Nel girone più complicato dell'intera Champions, l'Arsenal sta spadroneggiando: sconfitta a parte contro il BVB in casa, i londinesi hanno vinto e convinto. Hanno strappato la vittoria a Marsiglia, hanno schiacciato il Napoli all'"Emirates" e martedì sono andati anche a vincere in casa dei vice-campioni d'Europa uscenti. Tanto per impreziosire l'impresa, vi lascio un dato: è la prima volta che un club inglese riesce ad uscire con una vittoria dal temuto "Westfalen". Mica male per Arsène, che sembrava finito e invece ora ha una squadra con le "palle d'acciaio" sul campo: Giroud segna, i ragazzi di Wenger giocano un mezzo "tiki-taka" e persino Rosicky sembra essersi ripreso dai perenni acciacchi. Sono tutti piccoli segnali che fanno una stagione straordinaria.

Uno striscione ironico dei tifosi dell'Arsenal con tutti gli acquisti mancati dell'estate.

Ci sono due giocatori simbolo di questa rinascita del club londinese. Due storie diverse, magari due ruoli simili, ma entrambi dannatamente importanti per la crescita del club inglese. Il primo è sicuramente Mesut Özil: il tedesco è arrivato negli ultimi sgoccioli del calciomercato estivo per una cifra altissima. Qualcuno ha parlato di rapina a mano armata, forse dimenticandosi di quanto il tedesco sia silenzioso, ma fondamentale in questa squadra. Del resto, Mesut non è mai stato uno che faceva spettacolo. I suoi 17 assist nell'ultima Liga sono un biglietto da visita già abbastanza importante. Da Brema a Madrid, è sempre passato sotto silenzio, perché non ha la fama di Messi, l'indole da star di CR7 o la pazzia calcistica di Ribery. Özil, punto di riferimento nel Real di Mourinho, rischiava di rimanere in panca quest'anno: l'arrivo di Isco l'aveva già oscurato parzialmente nei pochi mesi condivisi a Madrid con l'ex talento del Malaga. Così, una volta arrivata la chiamata dell'Arsenal, il tedesco ha detto sì e ha trasformato la squadra di Wenger in una macchina da guerra. Alla faccia dei 45 milioni di euro spesi: difficile che il suo C.T. non si ricordi di lui verso giugno, magari per un viaggio in Brasile. Anche perché Özil è stato il top-scorer della Germania nelle qualificazioni al Mondiale del prossimo giugno: è troppo importante per la "Nationalmannschaft".
Il secondo è Aaron Ramsey, che sta riuscendo a fare meglio addirittura dello stesso Özil. Qualcuno dirà che è sorpreso dal rendimento del gallese durante questa stagione: la verità è che il centrocampista è finalmente maturato. C'è chi lo prendeva nei giochi manageriali perché in grado di fare il salto di qualità; poi vedevi la realtà e ti veniva qualche dubbio, anche a causa di troppi infortuni, per altro gravi. Inoltre, il gallese si portava dietro la nomea di "gatto nero": segnava lui e moriva qualcuno di famoso. Ora, a forza di realizzare gol (siamo a undici reti stagionali! E siamo solo a novembre...), il centrocampista si è portato a casa il premio come miglior giocatore della Premier del mese di settembre. Inoltre, Ramsey è il preferito tra i fans negli ultimi tre mesi e ha vinto questo premio già cinque volte durante quest'anno solare. Il giusto riconsocimento ad un ragazzo che era un predestinato e che non riusciva, per un motivo o un altro, a sfondare definitivamente. L'Arsenal lo prese che non era ancora maggiorenne e con poche presenze nella Championship: ora è un vero "gunner", pronto a dare il massimo per il suo club. E chissà che non lo rivedremo ai prossimi Europei: tra lui, Bale e l'allargamento della competizione a 24 squadre, forse il Galles ce la potrebbe fare. Intanto, l'Arsenal si gode il suo momento magico. E chissà che non sia l'anno buono per tornare a vincere.

Aaron Ramsey, 22 anni: è arrivato finalmente il suo anno di consacrazione.

6.11.13

#freekagawa, #freethetalent

Ci sono tanti talenti in giro per il mondo in grado di farti stropicciare gli occhi. Fra questi, c'è anche un minuto giapponese, che ha stupito la Germania. Dopo un anno a Manchester, però, la sua avventura con lo United sembra più un incubo che un sogno: Shinji Kagawa fatica a trovare spazio e il Mondiale richiede una certa condizione. Tanto che se ne è accorto pure il mondo di Twitter...

Shinji Kagawa, 24 anni, è un punto di riferimento per il Giappone di Zaccheroni.

Punto di riferimento calcistico della sua patria, Shinji Kagawa ha rappresentato forse una delle più geniali intuizioni di mercato a livello europeo. Inoltre, il giapponese è stato il capolavoro di Jurgen Klopp, capace di valorizzare chiunque. Una clausola - da 350 mila euro! - ha permesso al BVB di prendere Kagawa nell'estate del 2010.
Il calciatore era d'accordo con il Cerezo Osaka: se si fosse presentata l'opportunità di giocare in Europa, se ne sarebbe andato per quella cifra. Il tecnico dei gialloneri di Germania si è assicurato quello che si è rivelato essere uno dei più promettenti fantasisti in giro. Agile, rapido, veloce di gambe e di testa: il massimo per una squadra, come quella di Klopp, che ama giocare in ripartenza.
Kagawa in patria è unico nel suo genere: è stato il primo giocatore giapponese a firmare un contratto da professionista nonostante non si fosse ancora diplomato al liceo. Il Cerezo Osaka, vedendolo giocare, l'ha messo sotto contratto nel 2006, non ancora maggiorenne. È migliorato così tanto da attirare l'attenzione del c.t. Okada per i Mondiali 2010, salvo non rientrare nei 23 finali. 
L'altro uomo a cambiare la sua vita è stato Thomas Kroth: ex giocatore tedesco degli anni '80, ora gestisce la PRO Profil, un'agenzia che cura gli interessi di diversi giocatori. Tra questi, quelli dello stesso Kagawa: fu proprio Kroth a concludere l'affare con il Borussia Dortmund.
Per una cifra irrisoria, il giapponese arrivò al "Westfalen Stadion" nel periodo post-Mondiale sudafricano. Mai affare fu più azzeccato nel suo rapporto qualità/prezzo: grazie anche all'apporto dell'ex Cerezo, il BVB ha festeggiato tre titoli in due anni e ha rivinto la Bundesliga dopo nove stagioni. Kagawa si è visto rovinate entrambe le annate per gli infortuni, che l'hanno messo out per alcuni mesi. 
Tuttavia, il ragazzo si è fatto apprezzare per la sua unicità, come quando ha promesso una doppietta nel derby con lo Schalke 04 da neo-arrivato: detto-fatto e vittoria per 3-1 a Gelsenkirchen. Dopo due anni da favola, il ragazzo ha lasciato il BVB ed è volato alla corte di Sir Alex Ferguson. Tuttavia, allo United non ha trovato lo spazio che cercava: un po' per gli infortuni, un po' per l'ampia concorrenza nel suo ruolo, dove ci sono interpreti di un certo livello. 
Con l'arrivo di Moyes, le cose sembrano addirittura peggiorate, anche a causa di un gioco meno fantasioso e più concreto. Nelle ultime settimane, più di un giornale inglese ipotizza una sua partenza: forse non definitiva, ma un prestito affinché il Giappone disponga del miglior Kagawa possibile in Brasile. Senza continuità e minutaggio, il fantasista rischia di rovinare un appuntamento importante della sua carriera.

Kagawa con la maglia del Dortmund: un feeling innato tra lui e la tifoseria.

Ci si chiede quanto il trasferimento a Manchester sia stato una buona idea. IMHO Kagawa potrà dire in futuro di aver giocato in uno dei club più forti mai esistiti e di essere stato il primo giapponese a farlo ai Red Devils. Tuttavia, lo United sta depotenziando quel capitale calcistico che il giapponese ha rappresentato nel BVB dei miracoli? Forse parecchio. 
Oltre allo spazio concesso, il problema ristagna nel fatto che Kagawa non sta più giocando nella sua posizione originale. Il giocatore dello United, anche ai tempi del BVB, non ha mai giocato da trequartista nel 4-2-3-1 di Zaccheroni. Quella posizione, nella Nippon Daihyo, è già occupata da Keisuke Honda, che non ha la stessa duttilità di Kagawa.
Tuttavia, il talento di Kobe poteva sfogarsi poi nel club tedesco. Se in nazionale era costretto a partire dalla fascia, sacrificando la sua velocità e la sua visione di gioco, con Klopp era possibile tornare al ruolo originale, mentre Götze, Großkreutz o Błaszczykowski gravitavano intorno a lui. Allo United, quel ruolo era già di qualcun'altro nel 4-4-2 di Ferguson: Wayne Rooney, l'universale per eccellenza. 
Spostare Wazza da quel ruolo è complicato. Sarebbe stato possibile con l'avanzamento del nazionale inglese a prima punta, ma in quel ruolo è arrivato Robin van Persie nella stessa estate del giapponese. Così, la coppia d'attacco RvP-Rooney è persistita per l'intera stagione, con tanto di vittoria in Premier. 
Per Kagawa 26 presenze stagionali, condite da sei gol e altrettanti assist. Tuttavia, per farlo, la stella nipponica ha dovuto giocare sull'esterno, ma non sulla linea dei trequartisti, bensì su quella dei centrocampisti. Partire da così lontano dalla porta l'ha reso meno efficace e ficcante di com'era apparso al BVB.
Con l'addio di Sir Alex, è arrivato David Moyes: reduce da ottime stagioni con l'Everton, non è certo il tipo di tecnico che gioca un calcio "champagne". Così, Kagawa si è visto ulteriormente limitare il minutaggio, nonostante lo United facesse fatica a fare risultato. Si poteva vedere il talento ex Cerezo solitario, in panchina o addirittura in tribuna durante alcune gare. 
Solo negli ultimi tempi le cose stanno cambiando: infatti, anche ieri sera Kagawa era in campo per la trasferta di Champions League contro la Real Sociedad. Proprio lui era in mezzo a tutte le azioni del club inglese, che ha sfiorato la vittoria. Quattro presenze tra Champions e campionato nelle ultime due settimane sembrano aver rilanciato le sue quotazioni. Tuttavia, è dimostrato come Kagawa dia il meglio quando c'è fiducia attorno a sé.
Per questo, qualche giornale inglese ha ipotizzato un addio a Manchester nel caso le cose non cambiassero in meglio. Insomma, liberatelo: non sappiamo se sia felice o meno allo United, ma non è lo stesso concentrato di classe che abbiamo visto a Dortmund. Un hashtag di Twitter è corso in suo aiuto: #freekagawa. Ne aggiungo un altro: #freethetalent. Certi giocatori NON possono stare in panca, specie con un Mondiale alle porte.

Shinji Kagawa e l'Inghilterra: forse la maglia dello United gli va stretta?

2.11.13

Un passaporto di troppo.

Si dice sempre che il più grande sogno di un giocatore sia vestire la maglia della propria nazionale; meglio ancora se il lieto evento si concretizza in una grande manifestazione, come un Europeo o un Mondiale. Ecco, Diego Costa avrà forse la fortuna di farlo, ma per prender parte al prossimo Mondiale, ha deciso di NON giocare con la sua nazionale. Un paradosso che ha un suo senso: il bomber dell'Atletico Madrid ha rifiutato la chiamata del Brasile e ora aspetta solo un cenno di Del Bosque per chiudere l'affare con la Spagna.

Diego Costa con la maglia del Brasile: un'immagine che non rivedremo più.

Rifiutare la Seleção non è da tutti. Tuttavia, Diego Costa non è uno qualunque: il brasiliano ha aspettato tanto per emergere, ma adesso si sta prendendo la rivincita con gli interessi. E' al centro dell'attenzione: con l'Atletico Madrid, sta riuscendo nella difficile impresa di non far rimpiangere ai tifosi l'addio di Radamel Falcao, volato a Montecarlo in estate. Quando il colombiano è andato via, dopo un biennio da protagonista, tutti si sono chiesti se l'Atletico si sarebbe confermato come terza forza a livello spagnolo. Non solo ci sta riuscendo perché è un'ottima squadra, guidata da un ottimo allenatore, ma anche perché c'è quel Diego Costa che sta facendo grandi cose. Dati: 14 partite ufficiali tra Liga, Supercoppa nazionale e Champions League, 14 gol. In campionato, il brasiliano è stato la colonna che ha permesso all'Atletico di essere letale e di registrare una striscia di otto vittorie consecutive in campionato, che ancora adesso consente alla squadra di Madrid di essere vicina alla testa della Liga. Un suo gol, infine, ha permesso all'Atletico di tornare a vincere il derby contro il Real in campionato dopo tantissimi anni.
Una crescita, quella di Diego Costa, iniziata da lontano: solo un cieco poteva non accorgersi dei progressi del brasiliano durante gli anni. All'Atletico, dove gli occhi funzionano benissimo, hanno scommesso su Diego Costa sin da quando l'attaccante era un perfetto sconosciuto. Dopo qualche gol in seconda divisione portoghese con la maglia del Penafiel, i "colchoneros" comprano questo centravanti di 19 anni. Vari prestiti in giro per la Spagna non danno i risultati sperati: dopo un breve ritorno allo Sporting Braga (club che lo aveva portato in Europa per primo), i prestiti al Celta Vigo e all'Albacete dicono che il ragazzo segna 14 gol in due stagioni in seconda divisione spagnola. Un po' poco per sperare di giocare all'Atletico; così, arriva la proposta del Valladolid, squadra di bassa classifica in Liga. Il brasiliano giunge in biancoviola e segna sette reti in tutta la stagione; di queste, sei nelle prime 12 gare. C'è un'opzione per l'Atletico nel caso il club volesse riprendersi l'attaccante: i "colchoneros" ci credono e riportano Diego Costa a casa per un milione di euro.
A quel punto, l'attaccante comincia ad entrare nei ranghi della prima squadra, facendo da riserva per Forlan ed Aguero. Altri otto gol stagionali nel 2010/2011 fanno pensare che si possa riprovare l'ipotesi-prestito. La rottura del legamento crociato sembra rovinargli la stagione, ma un altro viaggio lo rimette in gioco. Stavolta la meta è vicina: la terza squadra di Madrid, il Rayo Vallecano, accoglie il brasiliano. Sarà un'operazione decisiva per la salvezza del Rayo: il giocatore in prestito dall'Atletico segna nove gol in 16 gare e porta in salvo il club. Tornato da Simeone la scorsa estate, Diego Costa ha giocato parecchio: con o senza Falcao, l'allenatore biancorosso non l'ha mai messo da parte. E i risultati si sono visti: il bomber di Lagarto ha finalmente raggiunto la doppia cifra, toccando quota 20 in tutta la stagione. Sopratutto, i suoi gol sono stati fondamentali per la vittoria in Copa del Rey: otto marcature in otto partite, tra cui quella decisiva in finale contro i cugini del Real. Prestazioni che l'hanno portato all'attenzione del C.T. del Brasile, Scolari, che non ha esistato a convocarlo per un paio di amichevoli contro Italia e Russia. Una volta esordito, sembrava tutto fatto perché Diego Costa potesse diventare un punto fermo della nazionale verdeoro.

Diego Costa ai tempi del Rayo Vallecano: lì ha cominciato a farsi notare.

Invece, niente da fare: nonostante una stagione piuttosto sorprendente con la maglia dell'Atletico, non c'è stato spazio per lui in nazionale in nessuna occasione ufficiale. Per far sì che diventasse eleggibile solo per il Brasile a tutti gli effetti, Diego Costa avrebbe dovuto giocare in un match ufficiale. Sfortunatamente per Scolari e compagni, il Brasile ospiterà i Mondiali, quindi è già qualificato. Tuttavia, un'altra occasione c'era: la Confederations Cup. Difficile chiamare il giocatore dell'Atletico nell'estate scorsa, perché c'erano già pronti Fred (rinato alla Fluminense) e Leandro Damião. Finita quindi? No, perché la star dell'Internacional si è infortunata poco prima dell'inizio della competizione. A quel punto, si è deciso tutto: Scolari ha chiamato il redivivo Jô e niente nazionale per Diego Costa. Risentitosi, l'attaccante dell'Atletico non ha visto più spiragli per la Seleção e ha cominciato a flirtare con la federazione spagnola. Quindi, si è arrivati alla decisione di questi ultimi giorni, spiegata dallo stesso Diego Costa in una recente intervista.
Certo, bisogna precisare una cosa: la convocazione dell'attaccante dell'Atletico Madrid non è così sicura. Se la Spagna, una volta come i suoi cugini lusitani, faceva fatica a trovare grandi centravanti, ora è piena. C'è Fernando Torres, rinato nell'ultimo anno e finalmente simile a quello visto a Liverpool negli anni d'oro. C'è Roberto Soldado, spesso sottovalutato, che sta facendo bene nella nuova avventura inglese con la maglia del Tottenham. C'è Alvaro Negredo, arrivato al Manchester City e pienamente parte del progetto tecnico di Pellegrini. Infine, ci sarebbe anche Fernando Llorente, bloccato però in quanto a gol con la casacca della Juventus. Tuttavia, Diego Costa appare al momento in grado di conquistarsi un posto in Brasile: come detto sopra, la sua stagione fin qui è stata straordinaria.
C'è chi, in Brasile, l'ha accusato di esser stato comprato. Può essere. Oppure no. La verità è che in Brasile non hanno mai creduto nel ragazzo: cresciuto nell'area di San Paolo, è stato costretto a lasciare la propria patria, visto che nessuno ha creduto in lui. Così, l'attaccante ha raggiunto la Spagna, che ha imparato pian piano ad apprezzarlo: la Liga lo ha fatto conoscere al mondo e lui sta ricambiando, trasformandosi in una star di questo campionato. Per carità, storicamente sono contrario agli oriundi (il caso Amauri-Italia rappresenta la turbe di questo sistema); tuttavia, dal punto di vista umano e psicologico, posso capire Diego Costa. La nazionale che avrebbe voluto rappresentare lo chiama, ma non crede in lui abbastanza e non lo convoca per competizioni ufficiali. E' normale che una volta che si fosse fatta avanti la Spagna, il ragazzo avrebbe ceduto: perché essere testardo e senza speranza? Il giocatore dell'Atletico vuole giocare il Mondiale ed è possibile che possa farlo con la maglia delle "furie rosse".
E così in Brasile è partita la psicosi. La paura. Il terrore che la finale del Mondiale casalingo sia il replay di quella di Confederations Cup: Brasile-Spagna. E che il "traditore" Diego Costa faccia disperare tutti nel nuovo "Maracanà". E se quel passaporto di troppo equivalesse al gol di Ghiggia della finale, persa contro l'Uruguay, nel mondiale casalingo del 1950? Forse bisognava pensarci meglio: la "pantera" non perdona.

Diego Costa, 25 anni, ha deciso: giocherà per la Spagna di Del Bosque.