29.11.15

ROAD TO JAPAN: Yuki Muto

Buongiorno a tutti e benvenuti a un altro numero di "Road to Japan", la rubrica che ci consente di scoprire i talenti che transitano sui maggiori palcoscenici del Sol Levante. La stagione è praticamente finita, se si escludono le appendici dei vari play-off, play-out e del final stage che caratterizza la J1. A questa ha partecipato anche Yuki Muto, la rivelazione di questo 2015.

SCHEDA
Nome e cognome: Yuki Muto (武藤 雄樹)
Data di nascita: 7 novembre 1988 (età: 27 anni)
Altezza: 1.70 m
Ruolo: Seconda punta, ala, prima punta
Club: Urawa Red Diamonds (2015-?)



STORIA
Nato a Zama (città della prefettura di Kanagawa) nel novembre 1988, Yuki Muto non è da confondere con il suo più famoso omonimo Yoshinori. La sua carriera da professionista è iniziata a soli 23 anni: nei quattro anni precedenti, Muto frequenta con successo la Ryutsu Keizai University e il suo club, che milita in Japan Football League.
Nel 2010 diventa anche il capitano della squadra, finché quest'ultima non viene sciolta e allora Muto rimane svincolato. A notarlo è Makoto Teguramori, oggi ct della selezione olimpica del Giappone: il tecnico lo vuole per i suoi Vegalta Sendai, all'epoca realtà in notevole crescita, nella quale Muto militerà per il successivo quadriennio.
Allo Yurtec Stadium la crescita del ragazzo è graduale: il primo anno gioca appena nove gare, ma segna tre reti e dimostra di poter esser utile alla causa. Con il passare degli anni, il club di Sendai si ritrova addirittura a giocarsi testa a testa il titolo della J. League nel 2012: intanto, Muto è diventato un titolare a tutti gli effetti.
La sua esperienza con il Vegalta si è chiusa nel dicembre 2014: dopo 96 presenze e cinque reti a Sendai, Muto ha deciso di lasciare il club che l'ha lanciato per trasferirsi agli Urawa Red Diamonds, soliti bulimici sul mercato. Si era pensato che potesse diventare una riserva fissa a Saitama. Invece, Muto si è messo in mostra con i Reds.
Che il 2015 sia stata l'annata migliore della sua vita lo dimostra un dato: solo in questa stagione ha segnato più reti che in tutto il resto della sua carriera professionistica (14 contro le precedenti 10). Nel 3-5-2 di Mihailo Petrović, si è preso subito il posto di seconda punta, nel quale ha fatto spesso coppia con uno tra Koroki e Ljubijankić.
Il risultato è stato straordinario: un'esplosione improvvisa e luminosa, tanto che a giugno 2015 Muto è stato nominato MVP del mese per aver realizzato una straordinaria striscia di quattro gol segnati in altrettante partite sul finire della primavera. Tutto sta ora nel capire se è stato un anno straordinario o se abbiamo sotto agli occhi un giocatore fatto e finito.

CARATTERISTICHE TECNICHE
Dal punto di vista tattico, Yuki Muto è un tesoro per qualunque allenatore. Infatti il ragazzo è in grado di giocare praticamente in tutte le posizioni dell'attacco: esterno nel 3-4-3, 4-3-3 o 4-2-3-1, forse anche nel 4-4-2. Può svolgere anche il ruolo di prima punta in casi di emergenza, ma è il ruolo di seconda punta a stargli meglio addosso.
L'ha dimostrato anche all'Urawa quest'anno, dove ha potuto mettere in mostra un discreto bagaglio tecnico. Una buon senso del gol accompagnato da un innato senso della posizione gli permettono di giocare anche da punta: a queste doti, Muto accompagna una discreta forza sia fisica che sopratutto atletica.

STATISTICHE
2011 - Vegalta Sendai: 9 presenze, 3 reti
2012 - Vegalta Sendai: 21 presenze, 2 reti
2013 - Vegalta Sendai: 29 presenze, 0 reti
2014 - Vegalta Sendai: 37 presenze, 5 reti
2015 - Urawa Red Diamonds (in corso): 40 presenze, 14 reti

NAZIONALE
Fino al giugno 2015, Yuki Muto non aveva mai vestito la maglia della nazionale giapponese, neanche con le rappresentative giovanili. Il suo non è mai sembrato un profilo molto attraente. Poi con il rendimento di quest'anno, tutto è stato possibile. E per questo il ct Vahid Halilhodzic l'ha premiato con una chiamata per la EAFF Asian Cup di luglio.
Lui l'ha sfruttata bene, se pensiamo che ha segnato gli unici due gol del Giappone nell'intera competizione. Muto è andato in rete sia contro la Corea del Nord che contro la Cina. In una spedizione fallimentare e spenta, l'attaccante degli Urawa è stato forse l'unica nota lieta. Da lì non è stato più convocato: speriamo che a marzo ci sia spazio per lui.

LA SQUADRA PER LUI 
Sembrava difficile ipotizzare una sua esplosione. Invece, il suo 2015 è stato straordinario. Azzarderei che è stato il giocatore più migliorato in quest'anno solare. E che sarebbe meglio rimanere all'Urawa almeno per un'altra stagione, per capire se la sua è stata un one-hit season oppure se c'è stato veramente un miglioramento sensibile e completo.

26.11.15

I maestri.

Spesso si dice che il calcio non riesca a creare emozioni, che non riesca più a coinvolgerci in maniera adeguata. Io vi consiglio di guardare qualcosa che non sia la Serie A. Tipo il finale pirotecnico della J2 League o, perché no, quella della J3. Dopo un campionato dominato e 96 reti segnate, il Renofa Yamaguchi ha agguantato la promozione solo all'ultimo secondo dell'ultima gara.

Il Renofa Yamaguchi, alla terza promozione consecutiva.

Una storia che parte da lontano quella del Renofa: è l'anno 1949 quando la Yamaguchi Prefecture Teachers FC comincia a calcare i campi di calcio. In verità, la squadra è composta da un gruppo di insegnanti con la passione per il pallone. Per anni il club ha militato nella Chūgoku League, trovandosi a volte anche nella lega della prefettura.
Nel 2006, poi, arriva la pazza idea: si vuole creare un team da J. League a Yamaguchi, una della città principali del Chūgoku. Si arriva anche al cambio di nome: da Yamaguchi Teachers si passa alla denominazione Renofa Yamaguchi FC. Dove "Renofa" è un acronimo che indica tre parole: rinnovamento, lotta e benessere.
La squadra è una delle più importanti della regione: vince tre volte la Chūgoku League e alla fine nel 2013 ottiene la promozione nella Japan Football League, la più importante divisione amatoriale. Nel 2014 arriva il bis: non solo il Renofa ha la media-spettatori più alta in JFL (2297 spettatori), ma con il quarto posto a fine campionato ottiene la partecipazione in J3.
A guidare tutti ci ha pensato Nobuhiro Ueno, il tecnico della squadra dall'inverno del 2014. Con lui sono arrivate due promozioni e un calcio più spettacolare. Ex difensore, ha giocato (poco) in J. League con la maglia dei Sanfrecce Hiroshima ed è stato persino parte della prima spedizione del Giappone a una Coppa d'Asia nel 1988.
Quest'anno il dominio del Renofa è stato netto: la squadra è partita a razzo, sorprendendo tutti gli addetti ai lavori. Sembrava dovesse chiudere la pratica la promozione in anticipo: basti pensare a partite fondamentali, come la vittoria in casa contro il Nagano Parceiro (da 0-2 a 3-2!) e quella sul campo del Machida Zelvia (un 3-1 autorevole).
E invece a un certo punto il Renofa ha rallentato di botto. Il campionato è rimasto aperto per merito del Machida Zelvia, che non ha mai mollato e si giocherà le sue chance nel doppio spareggio contro l'Oita Trinita. Dopo aver perso in casa contro il Renofa, la squadra di Naoki Soma ha fatto sette vittorie consecutive e 26 punti nelle ultime dieci giornate.
Di contro, il Renofa ha rallentato proprio dopo quella gara. Ok, ci sono state sei vittorie, ma anche tre sconfitte, di cui due in casa e una per giunta da una squadra sul fondo della classifica (il Fujieda MYFC). Così l'ultima partita contro il Gainare Tottori è diventata fondamentale: Renofa e Machida erano a pari punti, con la differenza reti in favore dei primi.
Al Torigin Bird Stadium, il Renofa è andato due volte sotto. Prima il gol di Nakayama a cui ha risposto Kishida, poi il lob di Fernandinho: sembrava finita. E invece al 95' (con i quattro minuti di recupero già finiti), il capitano Hirohiro Kirabayashi ha firmato un gol storico. Lo stadio - per metà arancione - ha festeggiato come non mai.

Pazza, infinita follia che è il calcio.

La formazione per tutto l'anno è stata più o meno la stessa. Nel 4-2-3-1 di Ueno, Ichimori è rimasto in porta come l'anno precedente. Linea a quattro con Koike, Iknaga o Dai accanto a Miyagi e Kuroki. A centrocampo, la linea di mediani è stata completata da Shoji e Kozuka, con l'inserimento di Hirabayashi a partita in corso. I tre dietro l'ineffabile Kishida sono stati l'arma in più: al centro Fukumitsu, sulle fasce Torikai e Shimaya.
Il segreto di questo successo è rintracciabile in un dato: quello dei gol segnati. Nel 4-2-3-1 del Renofa, la linea d'attaco ha fatto inevitabilmente la differenza. La squadra di Yamaguchi ha segnato 96 gol (la differenza reti è a +60): le dirette inseguitrici Machida e Nagano insieme ne hanno messi 98!
Basta guardare anche la classifica cannonieri: i primi tre sono tutti giocatori del Renofa (67 gol). E che dire di Kazuhito Kishida, top-scorer di quest'anno? Faceva panchina al Machida fino al 2013, poi è andato in prestito al Renofa. Ha deciso di rimanere e quest'anno si è sparato la stagione della vita: 32 gol in 34 gare, di cui molti decisivi.
Ora la squadra è diretta in J2, dove l'aspetta una sfida difficile. Ueno si aspetta grandi cose l'anno prossimo: «Avrei voluto vincere con un distacco di punti, ma va bene così. Grazie alla città di Yamaguchi: nel 2016 speriamo di dare problemi a tutti». Eppure nessuno avrebbe scommesso uno yen su quelle facce sorridenti a inizio anno...
In maniera neanche troppo nascosta, l'obiettivo è già chiaro fin dal 2006: Yamaguchi vuole stare in J. League. Quest'anno è arrivata tra i professionisti e sta scalando velocemente le tappe. Se un giorno li vedremo in J1, è tutto da vedere. Ma i maestri che nel dopo-guerra hanno calcato i campi con quella maglia sarebbero sicuramente fieri di loro.

Kiyohiro Hirabayashi, 31 anni, dopo il gol della promozione.
(©  RENOFA Yamaguchi)

24.11.15

157 sorrisi.

Quando lo vedi segnare sui campi giapponesi, la sua esultanza è sempre la stessa, specie da quando è arrivato a Hiroshima: mano sul cuore, dove giace lo stemma dei suoi Sanfrecce, e poi corsa sfrenata verso la bandierina più vicina. Ma sopratutto un gran sorriso, quello che Hisato Sato non ha mai perso nella sua carriera.

Hisato Sato ai suoi albori con la maglia dello JEF United.

Non ha fatto eccezione neanche domenica, quando con il suo gol - valido per il momentaneo 3-0 agli Shonan Bellmare - Hisato Sato ha eguagliato il record del maggior numero di marcature nella storia della J. League: raggiunto Masashi Nakayama, il Gon che negli anni '90 e 2000 ha segnato a ripetizione con la maglia del Júbilo Iwata.
L'ha fatto nel giorno più importante, quello che ha sancito l'ennesima vittoria dei suoi Sanfrecce Hiroshima, laureatisi campioni nel girone di ritorno. Con le vecchie regole, i 74 punti complessivi avrebbero garantito alla squadra di Hiroshima il terzo titolo in quattro anni, ma c'è il nuovo format e quindi per il titolo definitivo bisognerà attendere e sperare.
Poco importa. Hisato Sato è uno che non ha mai basato la sua carriera sui titoli, ma sui gol e sulle sensazioni che ha sempre regalato ai tifosi con le sue gesta. Il suo viaggio è partito da Chiba, dov'è rimasto per otto anni con la maglia del JEF United, dove ancora oggi gioca suo fratello Yūto, con cui ha condiviso anche una presenza in nazionale.
Tuttavia, l'attaccante aveva voglia di giocare. Così prima c'è stato il prestito al Cerezo Osaka, poi la fuga verso Sendai: con il Vegalta Sato ha fatto molti gol, che hanno attratto l'attenzione del Sanfrecce Hiroshima. È arrivato nel 2005 ed è alla 11° stagione con i viola: di queste, mai una sotto la doppia cifra di gol in campionato.
Sato ha avuto pochi cambi di allenatore al Sanfrecce. Solo quattro i tecnici avuti a Hiroshima: Takeshi Ono, Kazuyori Mochizuki, Mihailo Petrović e sopratutto quell'Hajime Moriyasu che gli ha dato quello che gli mancava, ovvero qualche trofeo. Già, perché di Sato si diceva sempre: «Oh, grande attaccante... ma quando vince?».
Sato era già entrato nella top 11 della J. League nel 2005 ed è stato capo-cannoniere della J2 nel 2008. Ma è il 2012 l'anno di grazia: non solo vince il primo campionato nella storia dei Sanfrecce, ma è stato capo-cannoniere della J. League, è entrato nella sua top 11 ed è stato persino nominato MVP della stagione e giocatore giapponese dell'anno. Il suo score recita: 44 presenze e 29 reti in quattro competizioni diverse.
I suoi gol sono stati fondamentali per iniziare un'epopea vincente al Big Arch Stadium. Proprio con Hisato Sato, l'uomo che è stato persino candidato per il FIFA Puskas Award 2014. Che ha realizzato il gol più veloce nella storia della J. League. A luglio scorso è stato persino eletto MVP del mese in J. League, segno che non ha perso il tocco di un tempo.

Così si fa la storia.

Chissà però se Hisato Sato ha qualche rimpianto. Ha vinto e ha giocato in qualunque competizione con il suo club, ma con il Giappone la scintilla non è mai scattata. Il suo score parla di 31 presenze e 4 gol più una partecipazione alla Coppa d'Asia col ct Osim nel 2007. Zaccheroni ci aveva pensato e l'ha convocato per l'amichevole contro il Brasile del 2012, ma non gli ha dato mai veramente spazio. A posteriori, chissà se ce n'era bisogno.
Per Sato l'incontro del destino è stato con Hajime Moriyasu, che è arrivato sulla panchina dei Sanfrecce nel 2012. Sembrava difficile colmare il vuoto lasciato da Petrović, invece l'ex giocatore della squadra di Hiroshima ha fatto meglio. Dal suo arrivo, il club ha alzato cinque trofei, compreso quello per la vittoria nel second stage di ieri.
Oggi il Sanfrecce ha un futuro anche tecnico che può reggere all'eventuale addio di Sato (ancora lontano): non tutti hanno in squadra Douglas, Asano e Notsuda nel reparto offensivo. Ma come fai a rinunciare al numero 11? Il suo modello è sempre stato Filippo Inzaghi, che Sato aveva visto nella finale del Mondiale per club del 2007 a Yokohama. Non è un caso che anche uno dei suoi cani abbia il nome "Pippo" in onore dell'ex bomber rossonero.
Nel bel mezzo delle celebrazioni per il titolo, qualcuno gli ha fatto delle domande sul record: «Sono molto contento di aver raggiunto il record di Gon (Masashi Nakayama, ndr), del quale sono un grande fan. Mi sarebbe piaciuto fare un altro gol per battere il record, ma ci penseremo l'anno prossimo. Ho dei compagni fantastici e sono contento di aver raggiunto questo record qui, davanti ai nostri fantastici tifosi».
Qualcuno mi ha fatto giustamente rifletter su una cosa su Twitter: perché celebrare un record eguagliato e non un record battuto? Avrei due risposte. La prima: siccome sono un fiero oppositore nei confronti della 2-stage season, per me la J. League è finita domenica mattina con le ultime gare di questo campionato, a verdetti già tutti fatti.
Ma c'è sopratutto il secondo. Visto che non conteranno nulla i gol nel final stage, Yoshito Okubo non potrà neanche eguagliare questo record (è a -1 da Nakayama), nonostante il terzo titolo di capo-cannoniere consecutivo. E allora quale occasione per celebrare un campione, un pezzo di pane come Hisato Sato? Nessuna. Grazie, bomber sorridente.

Hisato Sato, 33 anni, 157 gol in J. League (© Mutsuko Haruki)

22.11.15

Il profeta in esilio.

Dopo gli attentati di Parigi, la Francia è ripartita ieri con l'anticipo della Ligue 1 e le prime tre gare di Ligue 2. Tra queste, il Tours ha conquistato un'importante vittoria per 2-1 contro l'Evian: è solo la quarta vittoria in 15 giornate. Eppure, Alexy Bosetti - l'uomo che avrebbe dovuto dare spinta all'attacco del TFC - era ancora in panchina.


Non sarebbe dovuta andare così. E c'è ancora tempo per aggiustare una stagione finora storta, ma a Bosetti forse comincia a mancare l'aria di casa. Anche perché per lui Nizza non rappresenta solo il posto dov'è nato, ma quello dove la sua squadra del cuore gioca. E lui non ci ha solo giocato, ma l'ha tifata dalla curva e l'ha seguita in tutta la Francia.
Bosetti rappresenta infatti un caso più che raro nel calcio d'oggi. Nato a Nizza nel 1993, il ragazzo ha origini italiane: anzi, è il nipote della coppia formata dal pianista Henri Betti e dalla cantante d'opera Freda Betti. Ha giocato per un decennio al Cavigal Nice Sports, prima di firmare per l'OGC Nice nell'estate del 2009.
Nelle giovanili rossonere, Bosetti si è fatto notare: seconda o prima punta, ha permesso al suo club di vincere la prima Coppa Gambardella (la competizione delle giovanili) nel 2012. Con un bilancio di ben dieci reti nel 2011-12, il salto in prima squadra era inevitabile. L'esordio è arrivato con René Marsiglia qualche giorno dopo, in un match di Ligue 1 contro l'Olympique Lione.
L'anno successivo il tecnico Claude Puel l'ha inserito in prima squadra: la stagione d'esordio è stata senza gol in campionato, ma Bosetti ha comunque accumulato 30 presenze in tutte le competizioni. La prima rete in Ligue 1 con la maglia del cuore è arrivata il 22 settembre 2013: una gioia incontenibile quella per la marcatura contro il Valenciennes.
Il bilancio totale fino a quest'estate recita 87 presenze e 14 reti con il Nizza in tutte le competizioni, ma Bosetti si è tolto una bella soddisfazione anche in nazionale. Mai convocato con i grandi o in U-21, l'attaccante è invece stato parte di quella spedizione che vinse il Mondiale U-20 due anni fa in Turchia. Con lui Pogba, Digne, Zouma e Kondogbia.
Poco importa. Il suo sogno è sempre quello di diventare fondamentale per il suo Nizza. Lui, che molte partite le ha viste nella Brigade Sud, di cui porta un tatuaggio sul braccio, mentre sul cuore ha il simbolo del club. A Bosetti è sempre piaciuto dire che avrebbe vestito solo la maglia del Nizza nella sua carriera, ma quest'estate è successo qualcosa di diverso.
Il Nizza si è ritrovato in casa con diversi attaccanti a disposizione: Germain, Le Bihan, Benrahma, Constant, Pléa, Puel jr., Mendy e Honorat. Troppi per avere un po' di spazio. Sentitosi di troppo, Bosetti ha deciso di lasciare Nizza in prestito, destinazione Tours. Per il nuovo club anche la possibilità di riscattare il giocatore. L'attaccante non ha peli sulla lingua: «Preferisco giocare in Ligue 2 che far panchina».

Sembrava in crescita, eppure l'hanno spedito in prestito.

Le sue caratteristiche tecniche parlano di un attaccante che sfrutta gli spazi, che ha un discreto guizzo e che spera un giorno di poter vestire la 9 rossonera del Nizza, oggi sulle spalle di Hatem Ben Arfa, che sta giocando una stagione strepitosa. Il modello di Bosetti è quel Pippo Inzaghi che ha fatto bene con un altro rossonero, quello del Milan.
La sua vena da ultras si è vista anche nello scorso marzo, quando su Twitter ha annunciato che sarebbe andato a Milano per seguire l'Inter, l'altra squadra che occupa il suo cuore oltre al Nizza. Eppure lui è rimasto anche deluso dopo il prestito al Tours: sente che non solo il suo allenatore, ma tutti i tifosi l'abbiano già dimenticato.
L'esempio è arrivato qualche settimana fa: il Nizza ha chiuso il mercato estivo prelevando in prestito il difensore Ricardo Pereira dal Porto. Un ragazzo che ha persino esordito con la nazionale portoghese e che si è preso il suo amato 23. E lui non ha potuto fare a meno di twittare: «Partito immediatamente, subito dimenticato...».
Mi rendo conto di fare un accostamento un po' difficile (specie di questi tempi), ma è strano come un profeta così amato in patria - come Bosetti a Nizza - oggi debba faticosamente soffrire in quel di Tours. Per ora le cose non vanno bene: appena due gol in 12 partite giocate in stagione. E in Ligue 2 ha giocato solo due delle nove giornate.
Voluto da Marco Simone, oggi Bosetti sta faticando per mantenere un posto da titolare nel 4-3-1-2 del Tours. Con Miracoli (italiano all'estero), Malfleury, Kouakou e Tandia a contendergli il posto, la vita non sarà facile per al Vallée du Cher. Bosetti dovrà combattere, come chi è lontano da casa e deve farsi conoscere da chi non lo ama in maniera innata.

Alexy Bosetti, 22 anni, sta facendo fatica al Tours.

18.11.15

Una lunga storia d'amore.

Se fosse accompagnato da una musica di sottofondo, sarebbe "Funeral March of a Marionette" di Charles Gounod. Perché con quell'aria un po' da ispettore, un po' da santone non sembra ben voluto e su di lui le nubi si addensano sempre. Eppure è un pezzo di storia della Danimarca, ma da ieri sera Morten Olsen non è più il ct della nazionale dopo 15 anni alla guida.

La Danimarca del Mondiale '86: Olsen (a sinistra) è il capitano.

Non è che l'addio alla panchina fosse una novità: lo stesso ct l'aveva ampiamente preannunciato, affermando sei mesi fa che avrebbe lasciato la nazionale dopo Euro 2016. Olsen sperava ovviamente di farlo in altra maniera, magari facendo bella figura in Francia. Invece, il tecnico ha dato l'addio ieri sera dopo la sconfitta nei play-off con la Svezia.
Ma come si fa a separare Morten Olsen dalla Danimarca? È molto difficile, specie se si pensa che - tra campo e panchina - l'uomo di Vordingborg ha dedicato 34 anni (!) della sua esistenza per la causa danese. È grazie a persone come lui che la Danimarca ha potuto costruire una squadra da titolo per l'Europeo del 1992: lui con i fratelli Laudrup ci ha anche giocato.
Da giocatore è stato un esempio di professionalità, considerato un vero gentleman all'interno del rettangolo verde. Ha giocato in Belgio e in Germania, ha disputato un Mondiale e due Europei. Olsen era il capitano di quella Danimarca degli anni '80: ha smesso di giocare solo a quasi quarant'anni, congedandosi con gol in uno strano Danimarca-Brasile 4-0, un'amichevole valida all'epoca per festeggiare il centenario della federazione danese.
Basta un anno perché passi dal campo alla panchina: giocatore versatile nella sua carriera (ha iniziato da ala e ha finito da libero...), Olsen ha dimostrato una certa elasticità mentale anche in panchina. Non è un caso che abbia fatto bene sia col Brøndby che col Colonia: due titoli danesi e tre salvezze consecutive in Bundesliga.
Poi arriva la svolta della sua carriera: l'Ajax lo chiama per la successione a Louis van Gaal, che nel frattempo ha lasciato Amsterdam per Barcellona. All'inizio le cose vanno bene: il 1997-98 è l'anno del double, ma nella stagione successiva lo spogliatoio gli rema contro e così arriva il terzo esonero della sua carriera da manager.
Sembra finito. Per qualche mese non lo cerca nessuno, poi la Danimarca ha bisogno di lui e lo chiama a guidare la nazionale: contratto biennale. In realtà, dopo la qualificazione a Euro 2000, arriveranno altre soddisfazioni e la DBU non si è più separata da lui. Neanche nei momenti peggiori, come per le mancate qualificazioni ai Mondiali 2006 e 2014.
Eppure Olsen può vantare alcuni traguardi di prestigio: a parte la partecipazione della Danimarca a due Mondiali e due Europei sotto la sua guida, ci sono alcune prestazioni che vanno ricordate. Come il raggiungimento dei quarti di finale nel Mondiale '98 o l'ottimo Europeo 2004, dove però la Danimarca incontrò sulla sua strada le squadre migliori di quei due tornei, ovvero rispettivamente il Brasile e la Repubblica Ceca.

Schmeichel, i fratelli Laudrup, un giovane Martin Jorgensen: a Nantes si è sfiorata l'impresa.

Certo, l'eliminazione da Euro 2016 è forse il punto più basso della sua gestione. Sebbene l'impresa dell'Albania sia stata grande, la Danimarca era la squadra più interessante del girone, anche in prospettiva (la sua U-21 è arrivata in finale nell'Europeo di categoria). Eppure si è arrivati agli spareggi. Poi la Svezia - anzi, Ibrahimovic! - ha chiuso l'avventura di Olsen.
Il 4-3 totale in favore degli scandinavi non cancella comunque i tanti talenti consacrati da Olsen in nazionale. E non solo talenti, ma in generale giocatori che hanno fatto la storia della nazionale: da Martin Laursen a Christian Poulsen, da Dennis Rommendahl a Nicklas Bendtner, passando per Simon Kjær e Daniel Agger. E nel 2010, per il Mondiale sudafricano, ebbe il coraggio di portare un 18enne di belle speranze, tale Christian Eriksen.
Rimaniamo con le sue parole all'annuncio del suo addio: «Non ho mai visto questo come un lavoro, ma come uno stile di vita. Ne sono sempre andato fiero». Eppure ieri sera la commozione c'era alla 165° gara con la Danimarca: «Negli ultimi mesi le nostre prestazioni sono state discontinue. Mi prendo la responsabilità: sento una sensazione di vuoto».
Ora il destino della nazionale danese è tutto da stabilire. Il materiale tecnico sembra esserci: la Danimarca può contare su una squadra relativamente giovane e talentuosa, anche più della Svezia che l'ha eliminata. Basti pensare a Vestergaard, Christiensen, Højbjerg, Fischer, Sisto. Lo stesso Eriksen ha comunque 23 anni e una carriera in nazionale davanti a sé.
Olsen si è in passato augurato che il suo successore sia Michael Laudrup, che oggi è libero dopo un'esperienza in Qatar. Al di là di chi sarà il nuovo ct, nessuno potrà sostituire nella memoria calcistica di molti danesi la figura di Morten Olsen: una lunga storia d'amore non può finire perché il suo sguardo da ispettore non siederà più sulla panchina della Danimarca.

Morten Olsen, 66 anni, lascia la panchina della Danimarca.

15.11.15

Veni, vidi, vinsi.

In Italia lo conosciamo più per altre cose. Spesso il suo cognome è stato utilizzato per indicare - almeno graficamente - l'epiteto più efficace per l'attaccante scarso. Ma Dragan Mrđa da qualche tempo se n'è andato dall'Europa. Da un anno si è trasferito a Saitama, dove sta facendo bene con l'Omiya Ardija. Anzi, ne sta diventando un idolo assoluto.

Mrđa con la Stella Rossa: solo tre stagioni al "Maracanà" di Belgrado.

Eppure il nome di Dragan Mrđa non è nuovo in Europa. Anzi, qualche soddisfazione se la sarebbe anche tolta. Serbo classe '84, Mrđa è cresciuto nella Stella Rossa, senza però imporsi in prima squadra. Fino a 24 anni, il nulla. Poi l'esplosione al Vojvodina: nonostante sette allenatori in due stagioni, l'attaccante è capo-cannoniere e MVP della stagione 2009-10.
Tutto è pronto per una crescita ulteriore in Svizzera: per tre anni gioca al Sion, Nella prima annata le cose van benino, finché non si distrugge un legamento crociato. Quando torna in condizione, la sua media-gol è buona (l'esperienza elvetica si chiuderà con 19 gol in 40 partite), ma si rifà male e poi finisce anche fuori rosa. Naturale la decisione di tornare in Serbia.
Il riscatto è arrivato nel 2013-14, quando Mrđa ha raggiunto il suo massimo rendimento europeo. All'alba dei trent'anni si è laureato capo-cannoniere del campionato nazionale (19 gol) e la Stella Rossa si è laureata campione nazionale dopo alcuni anni di supremazia del Partizan, l'altra grande squadra di Belgrado e del calcio serbo.
Mrđa non vede l'ora, ma poi lascia nell'estate del 2014. A sorpresa si trasferisce per sei mesi in Giappone e per di più all'Omiya Ardija, squadra di bassa classifica della J. League. Sembra una mossa incomprensibile, ma il motivo lo si capisce subito: l'Uefa ha escluso la Stella Rossa dalle competizioni europee. E un'altra annata di solo calcio serbo non si può fare.
Il tempo di ambientarsi a Saitama e Mrđa, alla prima con la nuova maglia, mette una doppietta contro i campioni uscenti del Sanfrecce Hiroshima. Il serbo regala nove gol in 18 gare, ma non basta per evitare la retrocessione dopo dieci anni di prima divisione. Tutti pensano che tornerà a breve in Europa. E invece no: Dragan ha deciso che vuole rimanere.
Mrđa è stato di parola: ha firmato un contratto di un altro anno, poi ha trascinato la squadra di Hiroki Shibuya, specie da quando l'Omiya ha preso la testa della classifica a maggio-giugno. Fondamentale la sua rete allo Yamaha Stadium contro il Jubilo Iwata, quando c'era il rischio di perdere il vantaggio accumulato fin lì in classifica.
Il punto più alto forse l'ha raggiunto ieri, quando ha deciso la penultima gara di campionato contro l'Oita Trinita. Sotto di 2-0, gli Squirrels dovevano rimontare e vincere per portarsi a casa la promozione diretta in J. League. Dopo aver dominato un campionato senza storia (specie nella prima parte), l'Omiya ha rischiato di buttare via tutto.
Per giunta, ha rischiato di farlo contro l'Oita Trinita, penultimo in classifica e quasi certamente condannato a un play-out inevitabile. Con due gol di svantaggio, ci ha pensato il numero 8 a rimettere la partita in pari. Poi siccome la J2 è pazza, allora un rigore ha dato la possibilità a Ienaga di ribaltare del tutto la gara, regalando la promozione all'Omiya.

Siamo a 28 gol in 55 partite giocate con l'Omiya: media-gol non male.

Ma non è che il rendimento di Mrđa si sia improvvisamente elevato: sin da quando è arrivato a Saitama, lui i gol li ha sempre fatti. La sua media-gol al NACK5 Stadium è impressionante: ormai abituatosi al ritmo del calcio giapponese, non è detto che non si ripeta anche l'anno prossimo, quando l'Omiya sarà di nuovo in J. League.
Ironico tra l'altro che lui, che ha anche partecipato a un Mondiale (quello disastroso del 2010), sia arrivato in Giappone. Già, perché la sua carriera con la Serbia racconta di 14 presenze e due reti. E quei due gol li ha segnati proprio al Giappone, in un'amichevole del 2010 al Nagai Stadium di Osaka. Il destino a volte è beffardo.
Proprio lui ha detto in occasione della sua presentazione all'Ardija: «Mi piace la cultura giapponese. Quando sono stato qui con la nazionale, sono stati tutti gentili: mi piacerebbe saperne di più. Voglio dare il meglio qui». E in effetti, nonostante i trent'anni ormai passati, Mrđa sembra ormai nella miglior fase della sua carriera.
Ora il pensiero vola all'anno prossimo: «Anche oggi non è stata facile, la J2 è molto dura. Abbiamo speso un anno per raggiungere quest'obiettivo e sono felice di gioire con i tifosi». Mrđa ha vinto la sua sfida: è l'imperatore di Saitama. Veni, vidi, vinsi.

Dragan Mrđa, 31 anni, imperatore del gol all'Omiya Ardija,

13.11.15

UNDER THE SPOTLIGHT: Arkadiusz Milik

Buongiorno a tutti e benvenuti a un nuovo numero di "Under the Spotlight", la rubrica che ci consente di scoprire i talenti che si stanno consacrando in giro per l'Europa. Per questo undicesimo appuntamento, ci spostiamo in Olanda e precisamente ad Amsterdam, dove l'Ajax ta attraversando un periodo di difficoltà. A tirar su i tifosi ci sta pensando Arkadiusz Milik, attaccante dei Lancieri.

SCHEDA
Nome e cognome: Arkadiusz Milik
Data di nascita: 28 febbraio 1994 (età: 21 anni)
Altezza: 1.86 m
Ruolo: Prima punta, seconda punta
Club: Ajax (2014-?)



STORIA
Nato nel 1994 a Tychy (situata nel confine meridionale della Polonia), Milik riceve ben presto le attenzioni di scout inglesi. A 16 anni fa addirittura dei provini per Tottenham e Reading, finché il ragazzo si dimostra saggio e capisce che continuare la sua carriera in Polonia è la scelta migliore. In patria sicuramente potrà avere più spazio.
Così Milik decide di tornare vicino casa, a Katowice: ci vuole poco per firmare un contratto con il Rozwój Katowice ed esordire in III Liga (il quarto livello del calcio polacco). Per avere solo 16 anni, l'impatto è anche buono: dieci presenze e quattro reti per l'attaccante, che attira subito l'attenzione di club più grandi.
E il salto arriva. Non è neanche così piccolo, perché Milik firma con il Górnik Zabrze, formazione dell'Ekstraklasa, la prima divisione polacca. Il club si prepara a plusvalenza certa, visto che Milik viene preso per l'equivalente di 125 mila euro. Il Górnik guidato da Adam Nawałka ottiene un ottavo e un quinto posto, migliorandosi ogni anno.
Tuttavia, Milik non rimarrà a lungo. La prima stagione si adatta, poi a metà del 2012-13 deve chiudere il suo score a 8 gol in 14 partite stagionali. Il Bayer Leverkusen ha messo gli occhi su di lui: il giovane attaccante non se la sente di rifiutare un'occasione del genere. L'affare è fatto per due milioni e mezzo di euro: una barca di soldi per il Górnik.
Le Aspirine, però, decidono di prestare Milik all'Augsburg per il resto della stagione. Alla corte di Markus Weinzierl, il polacco cresce gradualmente: il club deve solo salvarsi e lui ha tutto il tempo di migliorare il suo gioco. Il risultato è negativo: appena due reti in 18 presenze. Nel finale del campionato non viene nemmeno convocato.
Tornato a Leverkusen, il B04 decide di prestarlo un'altra volta, stavolta in Olanda. La metà è Amsterdam, dove l'Ajax attende il polacco a braccia aperte. Per Milik è una rinascita: il tecnico Frank de Boer l'ha valorizzato. Non è un caso che lo score a fine stagione reciti: 33 presenze e 23 reti (!), seppur l'Ajax sia rimasto senza titoli.
In quell'estate 2014, il Bayer Leverkusen ha fatto un errore: mettere un'opzione per il riscatto a favore dell'Ajax. I Lancieri non se lo fanno ripetere e ad aprile hanno già provveduto a comprare l'intero cartellino di Milik per 2,8 milioni di euro. L'inizio di questa stagione non è stato lo stesso dell'annata precedente, ma per il polacco ci son state grosse soddisfazioni con la nazionale. In più, prendersi la "9" - precedentemente appartenuta a Sigþórsson - non è mai facile.

CARATTERISTICHE TECNICHE
Tatticamente Milik nasce prima punta, ma ha dimostrato di essere un giocatore poliedrico. La dimostrazione viene dalla sua posizione in nazionale, dove si temeva potesse essere un doppione di un punto di riferimento come Robert Lewandowski. Invece, i due sembrano integrarsi bene e saranno una delle coppie d'attacco più interessanti a Euro 2016.
Diversa la situazione dal punto di vista tecnico: mancino puro, il ragazzo non ha paura di provare soluzioni affascinanti e pericolose. Si sta prendendo la responsabilità dei calci da fermo e ogni tanto tenta la giocata. Per informazioni, chiedere a Edwin van der Sar, che si è pentito per qualche momento di aver ripreso i guanti da portiere.

STATISTICHE
2010/11 - Rozwój Katowice: 10 presenze, 4 reti
2011/12 - Górnik Zabrze: 25 presenze, 4 reti
2012/13 - Górnik Zabrze: 15 presenze, 8 reti
2012/13 - Bayer Leverkusen: 8 presenze, 0 reti
2013/14 - Augsburg: 20 presenze, 2 reti
2014/15 -   Ajax: 33 presenze, 23 reti
2015/16 - Ajax (in corso): 19 presenze, 7 reti

NAZIONALE
Milik ha fatto buona parte della trafila con le rappresentative giovanili della Polonia: U-17, U-19 e U-21. L'attaccante ha fatto bene sopratutto nelle ultime due, con cui si è messo notevolmente in luce. Convocato per la prima volta in nazionale maggiore nel 2012, la sua storia con la prima squadra ha avuto una svolta dopo l'arrivo in Germania.
E non solo. Guarda caso, oggi il ct della Polonia è proprio quell'Adam Nawałka che l'aveva fortemente voluto al Górnik Zabrze. Infatti, dal 2014 Milik è comparso più spesso in campo, fino a diventare il partner ideale di Robert Lewandowski. Con sei gol, Milik ha contribuito alla qualificazione diretta per Euro 2016 (e ha pure "purgato" la Germania campione del mondo).

LA SQUADRA PER LUI 
Viene da riflettere su come il Bayer Leverkusen - attento ai talenti emergenti - l'abbia lasciato andare facilmente all'Ajax. Ora gli olandesi si preparano la prossima estate a un'altra super-plusvalenza. Con Euro 2016 di mezzo, la quotazione di Milik potrebbe schizzare alle stelle.
Basti guardare chi si è già interessato. Nonostante abbia già un reparto completo, il Leicester si è fatto avanti per gennaio 2016. E c'è persino chi parla di un'ipotesi Barcellona. Gli olandesi, dal canto loro, si sono tutelati con un contratto fino al giugno 2019.

10.11.15

A muso duro.

Difficile la vita per i portieri francesi. Non è facile farsi spazio in nazionale, dove dopo Fabien Barthez la scena se l'è presa quello che a oggi è tra i cinque portieri più forti al mondo: Hugo Lloris, estremo difensore del Tottenham. Eppure ci sarebbe un altro che potrebbe sfidarlo per quel posto. Nella vita è un duro, così come in campo: sto parlando di Stéphane Ruffier.

Ruffier si è trasferito a Saint-Étienne nell'estate del 2011.

Stéphane è cresciuto sempre rapportandosi con un pallone, ma non da calcio. Anzi una palla, quella basca del padre, che è stato campione mondiale in questa specialità. A Bayonne lui avrebbe voluto diventare un attaccante, ma un giorno si erano trovati con pochi portieri e l'hanno provato in quella posizione: non è più uscito dai pali, se non per fermare gli avversari.
Fino a 16 anni all'accademia della sua città natale, è il Monaco a notarlo nel 2002. Per tre anni cresce nelle giovanili monegasche, poi Ruffier viene nuovamente prestato per una stagione al Bayonne per accumulare minuti. Con Flavio Roma a difendere la porta del Monaco, per il giovane portiere non c'è spazio fino al 2007-08.
In quell'annata arrivano le prime presenze: con l'infortunio di Roma, anche lui scende in campo. Quando poi la guida tecnica del club passa a Ricardo Gomes, il manager brasiliano decide che Ruffier sarà il nuovo titolare. Lui ci mette poco a impressionare i tifosi: la sua prova al Vélodrome contro l'OM (22-4 il bilancio dei tiri a favore dei padroni di casa) è pazzesca.
Nel 2010-11 la prima delusione della sua carriera: Ruffier viene nominato capitano, ma il suo Monaco retrocede. E lo fa nel modo peggiore: un infortunio gli fa saltare quattro delle cinque partite finali di Ligue 1. In quelle gare senza di lui, i monegaschi raccolgono appena due punti. Con lui, invece, vinceranno a Montpellier.
Ruffier non si può permettere di giocare in Ligue 2 e così fa le valigie: lo attende il Saint-Étienne. Un dato salta subito all'occhio: il nuovo tecnico Cristophe Galtier si fida talmente tanto di lui che Ruffier è sempre partito titolare nelle ultime quattro stagioni. Un bilancio di 152 partite consecutive che gli è valso anche il rinnovo del club fino al giugno 2018.
In tutte le competizioni, Ruffier ha saltato appena due partite di coppa da quando è arrivato al Geoffrey-Guichard, scalzando una leggenda come Jérémie Janot. Sarà un caso, ma con il suo apporto gli anni di sofferenza per l'ASSE sembrano alle spalle. Il Saint-Étienne ha collezionato un settimo, un quarto e due quinti posti dal 2011 in poi.
Anche in questo 2015-16 Ruffier non ha saltato una gara. E la passata stagione è stata quella della sua consacrazione assoluta: secondo i dati Squawka, il portiere dell'ASSE ha avuto addirittura una media-gol subiti inferiore a quella di Salvatore Sirigu, che era il portiere del PSG. E vanno ricordate le 18 partite concluse senza subire gol: merito anche della difesa del Saint-Étienne, una delle migliori di Francia nelle ultime annate.

Il motivo per cui Ruffier dovrebbe esser considerato un pochino di più.

I problemi spuntano semmai quando si parla di nazionale. Sin dai suoi trascorsi al Monaco, Ruffier è stato sempre osservato. Mai apprezzato dalle giovanili transalpini, Raymond Domenech lo lascia a casa per i Mondiali sudafricani del 2010, nonostante gli elogi dei media e l'infortunio in seguito di Cédric Carrasso, terzo portiere di quella spedizione.
Laurent Blanc l'ha fatto esordire nel 2010 in una gara contro la Norvegia, ma il vero distacco è arrivato con Didier Deschamps. Un uomo che Ruffier conosce benissimo: mentre lui militava nelle giovanili del Monaco, Didi era l'uomo che aveva portato il Monaco in finale di Champions nel 2004.
Nonostante le ottime prestazioni al Saint-Étienne, Ruffier non ha mai convinto a pieno Deschamps. L'estremo difensore dell'ASSE si è sempre ritrovato davanti non solo Hugo Lloris, ma persino Steve Mandanda: non me ne vogliano gli appassionati dell'OM, ma il capitano dei marsigliesi non mi è mai sembrato un portiere da grandi eventi.
In più, Ruffier ha avuto recentemente una discussione con Deschamps. Tutto nasce dalla chiamata di Areola, giovane portiere del Villareal, al suo posto. Così l'ha spiegata il ct: «Abbiamo parlato e ho deciso di non convocarlo». Probabile che Ruffier abbia palesato la sua voglia di esser protagonista con la Francia e Didì gli abbia risposto negativamente.
Troppo persino per un duro come Ruffier, che è arrivato secondo per due volte nel premio di miglior portiere della Ligue 1 e ha accumulato un'altra esperienza come terzo, stavolta al Mondiale 2014. Anche stavolta, però, per sfortuna altrui: si fa male Mandanda e allora viene chiamato per il Brasile. Possibile che non ci sia fiducia in uno così?
Dopo la sua esclusione dalla Francia, France Football ha lanciato un sondaggio interessante: pensate che Stéphane Ruffier sia il miglior portiere francese in questo momento? La risposta è negativa, ma il 35% di pareri positivi non è poco. E allora Ruffier deve continuare a muso duro, come se dovesse affrontare Ibrahimovic (qui alcuni esempi). Se non altro per il suo Saint-Étienne.


Stéphane Ruffier, 29 anni, solo tre presenze in nazionale.

8.11.15

Il sottovalutato.

Ci sono giocatori nel panorama europeo che spesso vengono "pompati": in gergo, il termine è usato per quegli individui che valgono meno rispetto alle statistiche che portano con sé. E poi c'è anche il fenomeno opposto, ovvero quei giocatori che vengono spesso sottovalutati perché non hanno un grande nome. Tra le due categorie, Benjamin Moukandjo appartiene certamente alla seconda.

Moukandjo con la maglia del Camerun, dove dev'essere protagonista.

Questo ragazzo camerunense di Douala è da parecchio tempo che è in Francia. Non è certo un novello del calcio professionistico, né della Ligue 1: il 2015-16 rappresenta la sua quinta stagione nella massima categoria transalpina e ormai c'è una certa continuità di rendimento che lo rende un profilo interessante per qualunque osservatore sul mercato.
Il suo viaggio è partito da lontano: alla tenerà età di dieci anni si iscrive alla Kadji Sports Academy, lo stesso vivaio che ha dato i natali calcistici a Samuel Eto'o. Il direttore dell'accademia, Michel Kaham (ex nazionale camerunense), fa di più: «Può essere il nuovo Eto'o. Il suo stile di gioco è quello dell'attaccante moderno: è veloce, tecnico e imprevedibile»
A 18 anni lo nota il Rennes, che lo preleva e lo porta in Francia. Tuttavia, Moukandjo non giocherà una gara ufficiale con la squadra bretone, che lo schiera nelle riserve e lo presta in giro per la Francia. Nelle squadra B, addirittura, il camerunense condivide il palcoscenico con gente come Brahimi, Sow e Gyan Asamoah.
L'addio arriva nell'estate 2009, quando si trasferisce al Nimes in Ligue 2. Gradualmente l'attaccante guadagna spazio ed esplode: è l'MVP del mese di dicembre 2010. A quel punto, c'è chi decide di acquistarlo da subito: il Monaco lo prende nel mercato invernale del 2011. I monegaschi retrocedono, ma lui non ha voglia di restare in Ligue 2.
Ci sarebbe addirittura il Liverpool sulle sue tracce, ma Moukandjo decide invece di firmare un triennale con il Nancy. La scelta migliore, visto che gli permetterà di giocare finalmente da titolare in Ligue 1. Alla fine la squadra retrocede in seconda divisione: dopo un'annata da nove gol in 27 partite, Moukandjo decide che è ora di tornare nella massima categoria.
Così è arrivato il trasferimento al Reims nell'estate 2014, quella dopo i disastrosi Mondiali brasiliani. Eppure il camerunense ha dimostrato di valere più di quel biennale firmato da free agent: la sua stagione allo Stade Auguste Delaune è stata ottima (otto gol in 31 gare) e ha aiutato la squadra di Olivier Guégan a salvarsi dopo un'annata difficile.
Ne ha approfittato quest'estate il Lorient, bisognoso di un rimpiazzo di Jordan Ayew, partito per la Premier League. Del resto, i Merluzzi potevano contare su un tesoretto da quasi dieci milioni di euro. Ne è bastato uno e mezzo per portare Moukandjo in Bretagna. Investimento che sta pagando, visto che il camerunense ha uno score da 13 presenze e nove reti in questa Ligue 1.

Il gol della vittoria del suo Lorient a Montecarlo. C'è tutto: dal cambio di gioco all'inserimento in diagonale, fino allo stop e tiro finale del 3-2.

Se in Francia Moukandjo ha trovato comunque la sua dimensione, ben diversamente è andata in nazionale. Con il Camerun l'esordio è arrivato nel 2011 e da allora l'attaccante è stato sempre nel gruppo dei convocati. Eppure, nonostante un Mondiale e una Coppa d'Africa alle spalle, non è mai riuscito a convincere a pieno.
Basti pensare ai due eventi internazionali ai quali ha partecipato. Del Mondiale brasiliano - disastroso per il Camerun, la peggiore squadra dell'intera competizione - rimane solo la rissa con Assou-Ekotto in un Croazia-Camerun perso con largo anticipo. Della Coppa d'Africa di gennaio, invece, un gol da calcio d'angolo e un'altra eliminazione precoce.
Ci si chiede se Moukandjo possa essere una guida tecnica e spirituale nel nuovo Camerun, quello che da un anno e mezzo fa a meno di Samuel Eto'o. Il Leone Indomabile per eccellenza si è ritirato dal calcio internazionale e il gruppo sembra di talento, ma già all'ultima Coppa d'Africa ha sofferto la poca chimica di gruppo. C'è spazio per ribaltare questo destino?
A giudicare dalle prestazioni di molti camerunensi in questa stagione, sembra di sì. E Moukandjo è la conferma principale: a oggi, l'attaccante del Lorient ha la migliore media-gol in Ligue 1 dopo Zlatan Ibrahimovic ed è primo in classifica cannonieri proprio a pari merito con lo svedese. Un miglior avvio di 2015-16 era impensabile.
E ora? L'obiettivo è migliorare ancora. A fine anno il Lorient potrebbe incassare molto di più del milione e mezzo di euro speso quest'estate per Moukandjo. Il giocatore, dal canto suo, si dice più maturo rispetto al passato e ora lotta persino per il premio di MVP del mese di ottobre con Batshuayi e Aurier. Altro che sottovalutato...

Benjamin Moukandjo, 26 anni, nuova vita con il Lorient.

4.11.15

Fortune alterne.

A modo loro, i cammini delle rispettive carriere si sono incrociati tante volte. All'Inter, al Real Madrid, al Chelsea. In Premier League e in campo europeo. Due sentieri paralleli che a volte convergevano. Eppure non c'è un momento delle loro vite come quello attuale dove José Mourinho e Rafael Benitez sembrano così lontani.

Mourinho-Benitez, a modo loro sempre nemici da dieci anni.

I loro incroci partono dall'universo Inter, dove Mou ha lasciato un qualcosa di irripetibile. Lasciamo stare il triplete (fosse facile farlo...): gli interisti non hanno mai dimenticato lo Special One, mentre i sei mesi di Benitez sono stati valutati come dannosi e inconcludenti. Anche se ripensando a Stramaccioni, Ranieri e Mazzarri, forse qualche dubbio viene.
La stessa cosa è avvenuta al Chelsea, dove Mourinho ha un patrimonio di credito inesauribile. Lo dimostra anche il momento attuale, dove i Blues di Londra hanno vinto appena cinque partite delle 17 disputate quest'anno in tutte le competizioni. Eppure Rafa si è fatto amare nei sette mesi a Stamford Bridge, conquistando in maniera rocambolesca l'Europa League.
E che dire del Real Madrid? Lì forse è Benitez a giocare in casa, anche per il suo passato da Blanco, seppur nelle squadre B e C. Mourinho ha vinto una Liga, ma non è mai riuscito a conquistare né la Champions né un pubblico (troppo) esigente. E così Rafa, tornato al Bernabeu quest'estate, sta facendo grandissime cose in Liga.
I due si sono incrociati spesso anche in Europa: le sfide tra Chelsea e Liverpool tra il 2004 e il 2009 sono state tante. E il portoghese non ha mai digerito il gol-fantasma di Luis Garcia nella semifinale di ritorno di Champions del 2005. Per altro Benitez l'ha fatto fuori anche nel 2007, sempre a un passo dall'ultimo atto, ma stavolta ai rigori.
Inoltre, va considerato come le fortune europee di entrambi siano arrivate più o meno nello stesso periodo. Mourinho ha in bacheca una Coppa Uefa e due Champions League conquistato con Porto e Inter; Benitez ha vinto due Europa League e una Champions League con Valencia, Liverpool e Chelsea. Insomma, siamo lì.
Eppure i due non si sono mai amati troppo. Sempre a punzecchiarsi, sempre a rincorrersi. Anche da lontano, anche in epoche differenti. Sono persino coetanei, visto che ci sono giusto tre anni a separarli. Entrambi senza una grande carriera in campo alle spalle, entrambi consacratisi all'inizio degli anni 2000.

José Mourinho, 52 anni, sempre più a rischio al Chelsea.

Forse è la prima volta che Benitez ha una situazione così drasticamente a suo favore nelle fortune della propria carriera. Mourinho è stato sempre considerato intoccabile, invincibile, sostanzialmente inarrivabile. Mentre su Benitez si sono abbattuti i lamenti di tifosi interisti e partenopei. Se a Napoli avranno avuto ragione, ne riparleremo tra qualche anno.
Diverse ora le sorti dei due: Mou sta vivendo il rischio licenziamento, con il duo Ancelotti-Makélelé ipotizzato per la sua sostituzione. Parliamo sempre di un tecnico che come percentuale di vittorie non è mai sceso sotto il 45% ottenuto all'União de Leiria, mentre quest'anno è al 29,4%! Persino il portoghese ha ammesso che per la prima volta si sente un po' in crisi.
Poi però lo guardi in conferenza stampa e lui ti ripete che il suo Chelsea non solo passerà il turno in Champions, ma arriverà primo nel girone. Stasera c'è già un primo test contro la Dinamo Kiev, mentre sabato è arrivata una brutta sconfitta in casa contro il Liverpool del neo-arrivato Klopp. E la vetta della Premier è lontana 14 punti.
Chi se la passa più che bene, invece, è Rafa Benitez. In teoria, la sua reputazione era scesa sotto zero. A Napoli ha vinto due trofei, ma è stato trattato come l'ultimo degli scarsi. Semplicemente aveva un gioco divertente, ma non fatto per vincere. Eppure il suo sembra averlo fatto. E anche quando è arrivato sulla panchina del Real, più di uno ha storto il naso.
Tuttavia, il Real Madrid è già qualificato agli ottavi di Champions League e ieri ha battuto senza problemi il PSG. In Liga i Blancos dovevano esser travolti dal Barcellona campione d'Europa, che invece appare in difficoltà. La sua squadra è ancora imbattuta dopo 14 gare stagionali. E Benitez ha preso decisioni difficili sul mercato. Una su tutte: via Casillas, promosso Keylor Navas, che sta dimostrando perché ne parlavo così bene un anno e mezzo fa.
Vedendoli così, però, ti auguri di rivederli contro, ancora una volta. Difficile che accada in Champions, sebbene la vocazione europea di entrambi sia notevole. Io sogno un po' più in là. Mou ha sempre detto che prima o poi allenerà la nazionale, mentre Rafa sarebbe un bel candidato per la Spagna post-del Bosque. Se ne parla per Euro 2020?

Rafa Benitez, 55 anni, primo in Liga con il Real Madrid.