30.11.14

ROAD TO JAPAN: Yasushi Endo

Buongiorno a tutti e benvenuti a un altro numero di "Road to Japan", la rubrica che vi consentirà di scoprire alcuni dei profili più interessanti del calcio nipponico. Per il penultimo pezzo dell'anno, si vola nella prefettura di Ibaraki, precisamente verso i Kashima Antlers. Qui Toninho Cerezo sta facendo crescere una nidiata di giovani niente male: tra loro, anche un classe '88 come Yasushi Endo - professione centrocampista - può esser considerato come uno dei vecchi del gruppo.

SCHEDA
Nome e cognome: Yasushi Endo (遠藤 康)
Data di nascita: 7 aprile 1988 (età: 26 anni)
Altezza: 1.68 m
Ruolo: Centrocampista esterno, trequartista
Club: Kashima Antlers (2007-?)



STORIA
Nato a Sendai nell'aprile 1988, Endo cresce calcisticamente nello Shiogama N.T.F.C., piccolo club delle prefettura di Miyagi di recente fondazione. Nel 2003 arriva la chiamata del FC Miyagi Barcelona, una compagine giovanile dove è passato anche un certo Shinji Kagawa. Tuttavia Endo rimane allo Shiogama per cinque anni. Il suo nome nella prefettura di Sendai gira con insistenza il suo nome. Tale è il credito accumulato in quegli anni che alla fine Endo viene scelto per giocare in J-League, ma non da una squadra qualsiasi: i Kashima Antlers, uno dei team più vincenti nella storia del calcio nipponico, lo selezionano per entrare in squadra.
I primi tre anni sono di puro apprendistato. L'esordio arriva in una serata di aprile contro l'Omiya Ardiya, quando Endo gioca un quarto d'ora subentrando a Masuda. Mentre la squadra vince tre titoli consecutivi in J-League e sforna talenti sotto la guida tecnica di Oswaldo de Oliveira, il giovane Yasushi accumula qualche presenza - nove in tre stagioni - e cerca di capire come funziona il mondo dei professionisti.
Il 2010 è l'anno di svolta: sempre con i consigli di Oswaldo, Endo comincia ad avere più minuti sul terreno di gioco. A fine anno, sono 29 le presenze sul terreno di gioco, accompagnate dalle prime cinque reti da professionista. Da lì in poi Endo non è mai andato sotto le 30 presenze stagionali ed è diventato un punto di riferimento della squadra. Specie da quando gli Antlers hanno deciso di "svecchiare" la rosa con l'opera di Toninho Cerezo, Endo è una sorta di guida per i più giovani, anche se lo stesso Yasushi non ha che 26 anni sulla sua carta d'identità. E quest'anno c'è stata l'esplosione: 11 gol e 8 assist sinora in stagione.

CARATTERISTICHE TECNICHE
Il suo principale tratto è la capacità di rendersi utile in molti moduli e in quasi qualunque zona del centrocampo. Principalmente Yasushi sarebbe una trequartista destro, un centrocampista esterno capace di rientrare sul sinistro per assist o conclusione a rete. Ciò non gli impedisce di giocare anche sull'altra fascia. Tuttavia, Toninho Cerezo non ha mai escluso il suo utilizzo anche da trequartista. Per la tecnica a disposizione, può tranquillamente fare anche la mezz'ala in un centrocampo a tre. Certo, la mossa sbilancerebbe la squadra in avanti, ma in emergenza è una mossa possibile.
Dal punto di vista tecnico, Endo ha un buon bagaglio personale, specie sui piazzati. Non è un caso che spesso si stia prendendo la responsabilità di calciare i tiri da fermo al posto del più esperto e capitano Mitsuo Ogasawara, leader degli Antlers. Arrivati al limite dell'area, il suo mancino può creare numerosi problemi: una parabola liftata come la sua non ha molti eguali in J-League. E il tiro a giro sul secondo palo è la specialità della casa.

STATISTICHE
2007 - Kashima Antlers: 5 presenze, 0 reti
2008 - Kashima Antlers: 1 presenza, 0 reti
2009 - Kashima Antlers: 3 presenze, 0 reti
2010 - Kashima Antlers: 29 presenze, 5 reti
2011 - Kashima Antlers: 39 presenze, 3 reti
2012 - Kashima Antlers: 47 presenze, 11 reti
2013 - Kashima Antlers: 38 presenze, 9 reti
2014 - Kashima Antlers (in corso): 32 presenze, 11 reti

NAZIONALE
Per quanto riguarda la Nippon Daihyo, Endo casca malissimo. A parte il cognome pesante che porta (Yasuhito non è suo parente, ma è il primatista di presenze in nazionale), l'abbondanza in quel ruolo non gli ha mai permesso di aprirsi una porta per una convocazione. Persino per l'EAFF Asian Cup Zaccheroni l'ha ignorato e difficilmente sarà chiamato da Aguirre. A meno che il tecnico messicano non decida di sconvolgere un po' le acque e fare altri esperimenti.
L'unico passaggio simbolico in nazionale è stato quello avuto con una convocazione in un U-18 della regione del Tōhoku per la Coppa Sendai del 2005: all'epoca Endo gioca con Shinji Kagawa e mette in campo una buona prestazione. Infine, Endo ha presenziato a uno stage della nazionale U-20 nel 2007, ma non è rientrato nelle scelte per l'Olimpiade di Pechino dell'anno successivo.

LA SQUADRA PER LUI 
Ormai il ragazzo è nel pieno della maturità. Grazie alle ultime due stagioni spese con Toninho Cerezo, Endo ha imparato molti dei trucchi del mestiere: è pronto per il grande salto. Anche perché di classe '88 con questa esperienza nel calcio nipponico non ce ne sono molti. Il prezzo dovrebbe essere leggermente aumentato rispetto ai 750mila euro di marzo 2014, ma poco male: il ragazzo li vale tutti.

27.11.14

Goodbye Istanbul.

Tempi duri per i tecnici italiani all'estero. Lippi ha lasciato da vincente la Cina, Capello non ha superato il girone al Mondiale con la sua Russia e Di Matteo sta facendo maluccio con lo Schalke. Di tutti i tecnici italiani all'estero, però, quello più nei guai è certamente Cesare Prandelli: ieri è arrivata la matematica eliminazione da qualunque competizione europea con il 2-0 subito a Bruxelles in casa dell'Anderlecht. E a breve arriverà l'esonero dal club turco.

Prandelli al Mondiale brasiliano: quattro anni da ct dell'Italia.

Quando ha lasciato la nazionale a giugno, forse il Cesare italiano si aspettava qualcos'altro. Qualche merito, lungo la sua carriera, gli va anche dato. Prandelli ha fatto tanta gavetta tra prima squadra e giovanili dell'Atalanta. Poi i passaggi a Lecce, Verona (sponda Hellas), Venezia, fino ad arrivare a Parma. Lì crea la coppia Mutu-Adriano e regala al calcio italiano Alberto Gilardino. Arriva la Roma, ma la malattia della moglie gli fa lasciare i giallorossi dopo poche settimane. Quando nel 2005 riabbraccia il calcio con la Fiorentina, Prandelli alza il suo livello di credibilità: bel gioco, alta classifica e tanta Europa. Tra cui una semifinale di Coppa Uefa persa ai rigori.
La capacità di portare la Viola dalla quasi retrocessione alla Champions è il motivo per cui la Figc lo ha scelto come l'uomo per ricostruire dopo il disastro del Mondiale sudafricano di quattro anni fa. Una scelta giusta e un compito ingrato, al quale secondo me Prandelli ha adempiuto benissimo nei primi due anni. Ha dato fiducia a una coppia di pazzi come Cassano e Balotelli; in cambio, ha creato un gruppo e ha centrato una finale di un Europeo. Forse a quel punto qualche integrazione immediata sarebbe servita, ma Prandelli ha deciso di fidarsi dei suoi uomini e l'avventura di sei mesi fa in Brasile è stata la certificazione di come quel gruppo sia fallito. L'Italia di Prandelli nel biennio tra Euro 2012 e il Mondiale 2014 ha subito la stessa sindrome dell'Inter immediata post-triplete: c'era bisogno di cambiare qualcosa, ma non lo si è fatto. E le conseguenze sono arrivate solo dopo, come una valanga.
Dopo la delusione mondiale, Prandelli è ripartito dalla Turchia nel giro di dieci giorni. Il 24 giugno si è dimesso da ct azzurro dopo Italia-Uruguay, valsa l'eliminazione dalla Coppa del Mondo, e ha parlato di "progetto tecnico fallito". Poi il 3 luglio scorso ha firmato a inizio luglio con il Galatasaray un contratto da due milioni e mezzo di euro all'anno, che era appena stato lasciato da un altro tecnico italiano (Roberto Mancini). Tuttavia, le cose non stanno andando bene alla Türk Telekom Arena. Il Galatasaray non è in testa al campionato come molti si aspettavano, anzi ha subito un paio di pesanti sconfitte in trasferta. Inoltre, i rapporti con la proprietà non sono proprio idilliaci.
Tuttavia la goccia che farà traboccare il vaso è il rendimento in Champions: la sconfitta di ieri sera contro l'Anderlecht - un 2-0 senza repliche - estromette il Galatasaray da qualsiasi competizione europea. Un punto, nessuna vittoria, 15 reti subiti in cinque gare. E un dato statistico interessante: ieri la squadra turca ha concesso ai belgi la possibilità di vincere la loro seconda gara casalinga nei gironi di Champions... negli ultimi 12 anni! Se sommata al 3-0 interno subito sabato dal Trabzonspor, l'esonero è servito.


Ora il Galatasaray vedrà cosa fare. L'economia in Turchia non è florida come due anni fa, quando nell'inverno 2013 arrivarono sia Didier Drogba dalla Cina che Wesley Sneijder da Milano (qui l'articolo). Basti guardare al mercato di quest'estate, quando gli acquisti più pubblicizzati sono stati Dzemaili e Pandev dal Napoli nell'ultimo giorno di trasferimenti. Che, per altro, si stanno rivelando dei fallimenti, visto il loro rendimento deficitario.
Dal canto suo, Prandelli sta dimostrando grosse difficoltà nel gestire i gruppi che egli decide di creare. Pensiamo a Euro 2012: in quel caso, il progetto è stato quello di affidarsi totalmente e nuovamente ad Antonio Cassano, demiurgo di quella nazionale dal punto di vista tecnico. Assieme a lui, lo scalmanato Mario Balotelli, sul quale Prandelli ha lavorato alacremente. Se i primi due anni da ct hanno visto il centravanti poco prolifico, dopo Euro 2012 Super Mario si è sfogato: 12 reti in due anni, tra le quali alcune decisive. Tuttavia, questo non è bastato a confermare quanto di buono fatto vedere all'Europeo. Quando l'appuntamento della Coppa del Mondo si è avvicinato, il gruppo sembrava sfilacciato. Troppe tensioni, sfogate anche al termine del Mondiale dopo l'eliminazione, tra richiami interni e frasi sibilline.
Quasi lo stesso è capitato a Istanbul, se è vero che i supporters del Galatasaray avrebbero preferito evitare un altro allenatore italiano alla guida del club giallorosso. La piazza sta diventando intollerante alla gestione straniera: nelle ultime dieci stagioni, ci sono stati sette tecnici stranieri. L'unico in grado di vincere qualcosa è stato Eric Gerets, mentre gli altri hanno fallito. C'è addirittura a chi manca Fatih Terim, che almeno ha portato a casa qualche risultato (due campionati e i quarti di finale in Champions).
Inoltre, si è verificato anche un problema tecnico: la decisione di Prandelli di giocare con il 3-5-2 non ha aiutato il Galatasaray, non abituato alla difesa a tre. Uno schieramento che è stato distrutto in Europa sia dall'Arsenal (4-1) che dal Dortmund (4-0 e 4-1). La mancanza di comunicazione con il gruppo ha fatto il resto: secondo quanto riportato da alcuni, il buon Cesare parlerebbe ai giocatori solo in italiano. Non un gran modo di farsi intendere. Lui ha provato a giustificare le sconfitte europee: «Per noi l'obiettivo è il campionato». Una scusa che non è bastata: l'esonero è già pronto. Goodbye, Istanbul.

Cesare Prandelli, 57 anni, in crisi con il suo Galatasaray.

24.11.14

L'uomo bicentenario.

200 volte. Come Baggio, Meazza, Altafini, Nordahl, Totti, Piola. Nel giorno della sua 400esima presenza nella massima serie italiana, Antonio Di Natale raggiunge quota 200 alla voce "gol in Serie A". Con il gol al Chievo Verona, oltretutto, sono 300 reti da professionista. Mica male per chi qualche anno fa sembrava destinato a incantare solo per qualche domenica, ma non a decidere le partite. La strada dallo stadio Sinigaglia del settembre 2002 al Friuli di ieri è stata lunga.


Di Natale è arrivato in Serie A a quasi 26 anni: un'esplosione tardiva. Tuttavia, alla prima gara nella massima serie - un Como-Empoli 0-2 - è lui a firmare una delle due reti che consentono ai toscani di agguantare il primo succcesso del campionato. Ricordo bene che all'epoca giocavo al Fantacalcio con i miei compagni delle medie. All'asta, puntai molto su quel ragazzo campano, che pochi conoscevano e confondevano con una festività. In realtà, Antonio Di Natale ha dimostrato di poter essere unico nel suo genere.
Dopo 55 gol e otto anni a Empoli, Totò si fa ammaliare da Luciano Spalletti. Proprio il tecnico di Certaldo ha fatto esordire il giovane Antonio nella Serie B 1996-97 con i toscani, quando la squadra ha conquistato la promozione in A per la prima volta. Così il viaggio del 2004 è verso Udine, dove Di Natale forma un bel tridente con Vincenzo Iaquinta e David Di Michele. Il risultato finale è la Champions League, ottenuta dopo i preliminari. Il numero 10 bianconero segna tanto, anche in Europa. Tuttavia, il suo ruolo rimane quello di seconda punta.
La svolta avviene nel 2009-2010: Fabio Quagliarella si è trasferito a Napoli per 18 milioni di euro e Pasquale Marino decide per un cambio. L'Udinese, apparentemente senza una vera prima punta, sposta il proprio capitano in quel ruolo. Il risultato sarà straordinario: già nel 2009-2010, Di Natale segna 29 gol ed è capocannoniere. Da quando gli è stato cambiata posizione in campo, il numero 10 dei friulani ha segnato 143 gol in 209 partite, disputate su tutte le competizioni nazionali ed europee. Numeri impressionanti, che non finiscono mai: nel 2014-15, siamo a 11 gol in 12 match.
Una carriera straordinaria, dedicata sopratutto a Empoli e Udinese. Se in Toscana è cresciuto e ha conosciuto il calcio professionistico, in Friuli Di Natale ha giocato in Champions League e nella vecchia Coppa Uefa, fino all'Europa League. Il risultato più vicino a un successo è stata la semifinale di Coppa Italia dell'anno scorso, quando l'Udinese ha rischiato di buttar fuori la più titolata Fiorentina (poi sconfitta dal Napoli). La semifinale della coppa nazionale è stata raggiunta anche nel 2004-05: in quel caso, è stata la Roma a escludere i friulani dalla competizione. Tuttavia, il terzo posto del 2011-12 è un po' come fosse stato uno scudetto. Giocare la Champions tre volte con l'Udinese (anche se per due stagioni solo nei preliminari) non è roba di poco conto.

Di Natale con l'Italia al Mondiale 2010: 42 presenze e 11 gol in azzurro.

L'unico cruccio nella carriera di Di Natale - più che quello di non vincere nulla - potrebbe esser stato quello di non aver reso in nazionale come ha fatto nel club. Se a Udine spesso l'hanno lasciato tranquillo di fare ciò che meglio sapeva fare, in azzurro le pressioni hanno pesato. Totò ha partecipato a due Europei (2008 e 2012) e un Mondiale (2010). Tre commissari tecnici diversi - Donadoni, Lippi e Prandelli - hanno puntato su di lui senza alcun riserbo: un segnale che il suo talento è facilmente distinguibile per chiunque. Tuttavia, al momento della verità, si è un po' sciolto. E forse all'Europeo di due anni fa, con Cassano e Balotelli lì davanti, non gli è stato dato il giusto spazio. Intanto, lui un gol alla Spagna campione d'Europa e del Mondo l'ha fatto...
L'Udinese di Stramaccioni non mi sembra una squadra da Europa, ma la salvezza è un obiettivo tranquillamente alla portata. Nel frattempo, per Totò ci sarà la possibilità di battere qualche altro record. Quelli della società friulana, intanto, se li è presi tutti. L'obiettivo dichiarato adesso è raggiungere e superare uno dei miti del calcio italiano, ovvero Roberto Baggio. Il Divin Codino è a quota 205 in A, mancano cinque reti per riprenderlo. Del resto, Di Natale non è mai andato sotto i venti stagionali da quando è diventato centravanti.
Molto dipenderà anche dal contratto. Attualmente il capitano dell'Udinese ha un accordo con i friulani fino al giugno prossimo, dopo di che... c'è incertezza. Di Natale ha detto: «Ci penso, ho qualche mese per ragionare. Con la famiglia Pozzo non c'è nessun problema...». E pensare che a luglio scorso Lippi l'ha cercato per chiedergli se Di Natale volesse raggiungerlo in Cina. Il Guangzhou Evergrande - già italiano con Diamanti e Gilardino - avrebbe potuto beneficiare di un talento. Invece, il capitano bianconero è rimasto. Chissà che la sua favola non continui fino al giugno 2016. Magari per raggiungere non solo Baggio, ma anche qualcun'altro. Intanto, l'uomo bicentenario si gode la sua festa: a 37 anni, non è ancora finita.

Antonio Di Natale, 37 anni, 200 gol in A raggiunti con l'Udinese.

20.11.14

No more glory.

18 novembre 2009: l'Egitto perde lo spareggio per qualificarsi al Mondiale di Sudafrica 2010 contro gli acerrimi rivali algerini. Se escludiamo la gioia di qualche mese dopo - la terza vittoria di fila in Coppa d'Africa - da quel momento in poi l'Egitto ha vissuto un periodo di grandissima crisi. Tante delusioni: l'ultima si è concretizzata ieri, quando i Faraoni hanno perso 2-1 in Tunisia e hanno mancato (l'ennesima) qualificazione alla Coppa d'Africa. Un disastro su tutta la linea.

31 gennaio 2010: l'Egitto è campione d'Africa per la terza volta consecutiva.

E pensare che il passato recente è molto più che glorioso. Quasi prestigioso, grazie a tanti successi raccolti nell'ultimo decennio. Storicamente, l'Egitto è una squadra prestigiosa nel panorama africano: è stata la prima compagine del Continente Nero a qualificarsi per la fase finale di un campionato del Mondo (nell'edizione italiana del 1934). I Faraoni hanno partecipato solo a due Mondiali: sarà un caso, ma la seconda volta è stata sempre in Italia, seppur nel 1990. E il legame con il nostro paese non può che rafforzarsi, se pensiamo che il punto più alto della propria storia recente l'Egitto l'ha raggiunto quando riuscì a battere proprio gli azzurri nella Confederations Cup del 2009: un successo di portata planetaria, visto che l'Italia di Lippi era campione del Mondo uscente. Poi l'Egitto non ha superato il gruppo ed è uscito per mano degli Stati Uniti, ma il risultato è stato importante.
Quel punto - raggiunto dopo anni di lavoro - lo si deve sopratutto all'impegno di Hassan Shehata, commissario tecnico dell'Egitto dal 2005 al 2011. Lui ha costruito la squadra che poi ha vinto tre edizioni consecutive della Coppa d'Africa: nel 2006 in casa, nel 2008 in Ghana e nel 2010 in Angola. Con queste tre vittorie, l'Egitto ha anche stabilito la nuova striscia più lunga d'imbattibilità nella fase finale della rassegna continentale: 32 gare senza mai perdere. Non solo: l'Egitto è nella storia una delle due africane (l'altra è la Nigeria) a esser mai entrata nella top ten del ranking Fifa. Tutta farina del sacco di Shehata.
Dopo quello straordinario ciclo, però, l'Egitto ha sofferto un contraccolpo clamoroso. Lo stesso Shehata ha dovuto rassegnare le dimissioni e tornare al suo amato Zamalek. Motivo? La clamorosa mancata qualificazione alla Coppa d'Africa 2012, con l'Egitto eliminato in un girone con Sierra Leone, Sudafrica e Niger. Non è andata meglio nelle qualificazioni successive. Dopo l'arrivo di Bob Bradley in panchina (ex ct USA), i Faraoni hanno mancato anche l'appuntamento del 2013: nonostante la qualificazione si ottenesse tramite scontri a eliminazione diretta, l'Egitto ha perso contro la Repubblica Centrafricana. Anche nel cammino per qualificarsi al Mondiale brasiliano, è andata male: dopo aver dominato il proprio gironcino (sei vittorie su sei partite), l'Egitto è stato massacrato dal Ghana nel doppio confronto. Il finale è stato 7-3 in favore delle Black Stars, ma nella gara d'andata è finita 6-1 per il Ghana...
A quel punto, anche Bradley è stato cacciato e al suo posto è arrivato Shawky Gharib, che è stato assistente di Shehata nel periodo d'oro. Nulla però è cambiato neanche per le qualificazioni alla Coppa d'Africa del prossimo gennaio. La parziale scusante è che l'Egitto è stato inserito in un gruppo difficile: Tunisia e Senegal sono due buone squadre. Tuttavia, i Faraoni hanno perso tutte e quattro le partite contro queste squadre: un segnale di poca solidità. Sei punti pieni contro il Botswana, ma non sono bastati a qualificarsi neanche come miglior terza. Nemmeno avere un gran giocatore come Mohamed Salah, che è stato cercato e preso da un certo José Mourinho al Chelsea, è servito a raddrizzare la situazione.

Hassan Shehata, 65 anni, l'uomo che ha fatto vincere tutto all'Egitto.

Il problema può essere sviscerato su tre fronti. Primo: la squadra sembra meno unita di prima e i talenti non fioccano come una volta. Ci sono ancora i grandi vecchi, come Ahmed Fathy e Hossam Ghaly, ma i grandi sono ormai tutti fuori dal giro della nazionale. Essam El-Hadary, leggendario e istrionico portiere del grande Egitto, gioca ogni tanto, ma non può essere il titolare dei Faraoni a 41 anni. Ahmed Hassam, dopo lo storico record di 184 presenze in nazionale, si è giustamente ritirato nel 2012. Gedo, match-winner della finale della CAN 2010, non gioca e non segna. Amr Zaki, l'uomo che stregò Anfield con la maglia del Wigan, non ha nemmeno un contratto con una squadra, così come Mohamed Zidan. Mettiamoci anche che una leggenda non solo del calcio egiziano, ma di quello africano come Mohamed Aboutrika si è ritirato l'anno scorso. A questo punto, il quadro tecnico è completo.
Secondo: la violenza. Già, perché a guardare i risultati il calcio egiziano non sembra passarsela male: basti pensare che l'Al-Ahly sotto la presidenza di Hassan Hamdy - dal 2005 a oggi - ha vinto cinque Champions League africane e un'altra volta è arrivata in finale. Quindi il club ha partecipato alla FIFA Club World Cup cinque volte nelle ultime dieci edizioni. Nel 2006, l'Ah-Ahly arriva persino terzo, facendo soffrire in semifinale l'Internacional di Pato. Tuttavia, l'incidente del febbraio 2012 al Port Said Stadium è ancora ben fresco nella mente di tutti: 72 morti, più di 500 feriti. Cose che in una partita di calcio non dovrebbero mai accadere. E non è stato l'unico episodio, visto che i tifosi dello Zamalek hanno invaso il campo nella gara di ritorno dei preliminari della Champions League africana del 2011 contro il Club Africain, squadra tunisina. Il risultato è stato la squalifica del club dalla competizione.
Terzo: manca una guida forte. Quando l'Egitto gioca la Coppa d'Africa in casa nel 2006, i Faraoni affrontano in semifinale il Senegal. Shehata si consacra agli occhi dei tifosi in quella gara: decide di togliere la star locale Mido (sì, quello della Roma) e l'attaccante non la prende benissimo, insultando il suo ct. Il tecnico manda dentro Amr Zaki, all'epoca un perfetto sconosciuto. Ci vogliono pochi minuti prima che l'allora attaccante dell'ENPPI metta dentro il gol che porta l'Egitto in finale. Anche queste sono scelte di personalità. E senza quel carisma - che è necessario per vincere - difficilmente l'Egitto rivedrà la gloria molto presto.

Neanche il talento di Mohamed Salah, 22 anni, è bastato all'Egitto.

17.11.14

4 d.M. e l'ennesima rivoluzione

Che fatica superare quel fantasma. Il 25 maggio 2010 l'Inter vince in quella data la Champions nella finale di Madrid contro il Bayern Monaco e diventa l'unica italiana a conquistare il triplete. Una gioia irrefrenabile, seguita da anni bui. Nessuno dei sostituti di Mourinho è riuscito a conquistare veramente la tifoseria. Ora arriva anche l'esonero di Walter Mazzarri, voluto nella pausa per le nazionali. E torna chi, prima dello Special One, era riuscito a vincere con l'Inter: Roberto Mancini.

Walter Mazzarri, 53 anni, ha concluso la sua avventura interista.

Il trauma dell'addio di José Mourinho ha lasciato delle cicatrici pesanti sulla società nerazzurra, che a quattro anni da quei trionfi non riesce ancora a ripartire in maniera continua e definitiva. Sulla panchina dell'Inter si sono alternati Benitez, Leonardo, Gasperini, Ranieri, Stramaccioni e lo stesso Mazzarri, ma i risultati non si sono visti. Paradossalmente le uniche soddisfazioni sono arrivate proprio nell'anno successivo al triplete: una Supercoppa Italiana, una Coppa del Mondo per club e la conquista della Coppa Italia 2010-11. Tutto condensato in un anno, tanto da pensare che altro non fossero che una prosecuzione di quanto costruito dallo Special One. Poi i trionfi sono diventati sono un ricordo del tempo che passa e nessuno dei tecnici sopracitati è stato in grado di esser continuo in termini di risultati.
Quando Walter Mazzarri è arrivato a Milano, ho pensato che fosse la scelta migliore. Lui è un allenatore che basa tutto sulle motivazioni e il 2012-13 dell'Inter è stata forse la peggior stagione degli ultimi 15 anni (dal 1998-99, per intenderci). Il tecnico di San Vincenzo è uno che si esalta nelle difficoltà. Ricordiamoci i tanti risultati con il Napoli e con la Samp, ma sopratutto la salvezza con undici punti di penalizzazione ottenuta a Reggio Calabria nel 2006-07: senza quella zavorra, la Reggina avrebbe sfiorato l'Europa. Quindi parliamo sicuramente di uno dei tecnici più capaci del panorama italiano. Magari un po' troppo integralista, ma in termini di risultati la sua storia parla da sé: è uno che difficilmente sbaglia una stagione.
Il target in casa Inter era quello di riprendersi dal nono posto del 2012-13. Un obiettivo parzialmente riuscito l'anno scorso: qualche buona gara e l'inizio flash del campionato. Il quinto posto finale, ottenuto dopo un finale di stagione complicato. Il rammarico per la doppia sfida contro il Tottenham in Europa League, dove forse l'Inter sarebbe potuta andare ulteriormente avanti, anche se WM non ha mai amato troppo quella competizione. Buoni dati se pensati in confronto a due mancanze fondamentali. La prima: l'esplosione ancora in essere di alcuni giocatori, visto che gente come Kovacic e Icardi è diventata decisiva solo quest'anno. La seconda: una squadra che aveva bisogno di esser ricostruita, di fronte a realtà più solide. Pensate a Napoli e Fiorentina per esempio, senza dover citare la Juve. Poi il passaggio di consegne alla presidenza nerazzurra tra Moratti (colui che l'aveva scelto) e Thohir (che ha solamente ereditato Mazzarri) forse non ha aiutato. Tuttavia, Mazzarri ha avuto ciò che voleva quest'estate in sede di mercato.
Ciò nonostante, tutto è peggiorato in questa stagione. La tifoseria interista non è famosa per la sua pazienza, ma Mazzarri si è cacciato nei guai da solo. A cominciare dall'atteggiamento sempre garantista del tecnico nei confronti di sé stesso: Mazzarri ha trovato sempre una giustificazione per le sue mancanze (tanto da creare fenomeni su YouTube e Facebook), tra calci d'angoli battuti e pioggia infame. Poi i risultati: alla fine della sua avventura, Mazzarri ha collezionato la percentuale più bassa di vittorie tra coloro che hanno succeduto Mourinho sulla panchina dell'Inter. Certo, Gasperini ha fatto peggio, ma è stato alla guida dei nerazzurri per appena cinque gare. E pensare che proprio Mourinho - nonostante gli screzi passati con il tecnico di San Vincenzo - l'aveva incoronato come l'uomo giusto per la rinascita dell'Inter. Peccato che Internet abbia massacrato l'ormai ex tecnico nerazzurro, tra l'hashtag #mazzarrivattene e video come quelli sotto.


Alla fine, la scelta dell'Inter è caduta sul passato più recente, quello timbrato Roberto Mancini. Un altro contratto pesante, con firma fino al giugno 2017. Segno che Thohir crede alla rinascita interista per le mani del Mancio. E che qualunque altro candidato che sperava di raggiungere la panchina dell'Inter a fine stagione - leggasi Sinisa Mihajlovic - dovrà rimandare a un'altra volta. Mancini ha vinto tanto con l'Inter: il tecnico di Jesi ha trasformato il club da zimbello italiano dei primi anni 2000 a una società vincente. Certo, Calciopoli ha avuto qualche merito in questa trasformazione di mentalità, ma l'ex tecnico del City è uno che in campo nazionale fa benissimo. Lo ha confermato anche all'Etihad Stadium. Più difficile sarà rilanciare l'Inter in Europa: per Mancini, c'è la maledizione Europa (ne parlai tanto tempo fa qui). E l'Inter del Mancio nel quadriennio 2004-2008 era molto più forte di quella attuale...
Fino all'ultimo, in corsa per la panchina nerazzurra c'è stato anche Walter Zenga. Non mi nascondo: forse sarebbe stata una soluzione più adatta di Mancini, al quale subentrare in corsa pesa sempre. Perché per il Mancio ci vogliono determinati tipi di giocatori, che in quest'Inter non ci sono. Basti pensare che gli esterni difensivi sono - tranne Nagatomo - tutti da 3-5-2: di terzini veri ce ne stanno pochi. Zenga, invece, è molto bravo nell'adattarsi, come ha dimostrato nell'esperienza di Catania. Mettiamoci anche altre due ragioni. La prima: l'ingaggio. Mancini, seppur libero, non è venuto all'Inter per elemosinare. Altrimenti non avrebbe accettato l'avventura Galatasaray un anno fa. E infatti c'è chi parla di un ingaggio da quattro milioni di euro l'anno. Se ci mettiamo anche l'esonero di Mazzarri e le cifre da corrispondere al suo staff fino al giugno 2016, il cambio di allenatore è costato all'Inter - tra ingaggi netti e lordi - 35 milioni di euro. Mica male per chi ha visto aprire dall'Uefa nei suoi confronti una procedura d'infrazione per i guai economici.
Secondo motivo: il progetto. Con Zenga si sarebbe potuto fare un anno di transizione fino a maggio, per poi decidere da dove ripartire. Se l'Uomo Ragno avesse fatto bene, lo si sarebbe potuto confermare; altrimenti, lo si sarebbe silurato per qualcun altro. Se Mancini non si ripetesse ai livelli della prima esperienza interista, con quali strumenti lo si potrà esonerare? Per pagare un altro allenatore per non far nulla? Diciamo che la mossa non è stata delle più sagge. Intanto, Mazzarri si può consolare e capire che gli allenatori non possono evitare per sempre l'onta dell'esonero. Uno dei suoi motivi di vanto crolla e speriamo per lui che sia d'insegnamento per una futura opportunità. L'Inter, invece, decide di ripartire da qualcuno che ha vinto con i nerazzurri PRIMA di Mourinho. Ormai è il quarto anno dopo Mourinho (d.M.) e l'ennesima rivoluzione nerazzurra è alle porte. Vedremo se sarà l'ennesimo fallimento di questi anni.

Roberto Mancini, 49 anni, torna all'Inter. Dietro José Mourinho, 51.

14.11.14

UNDER THE SPOTLIGHT: Héctor Herrera

Buongiorno a tutti e benvenuti a un altro numero di "Under The Spotlight", la rubrica che vi segnala i migliori talenti presenti sul panorama del calcio internazionale. Oggi voliamo a Oporto e precisamente dai Dragoni del Porto, che ne sanno di diamanti grezzi da svezzare. In realtà, il prodotto che vi presento è un calciatore fatto e finito, che in due anni massimo verrà venduto a cifre astronomiche: è Héctor Herrera, centrocampista messicano del club lusitano.

SCHEDA
Nome e cognome: Héctor Miguel Herrera
Data di nascita: 19 aprile 1990 (età: 24 anni)
Altezza: 1.83 m
Ruolo: Centrocampista completo
Club: F.C. Porto (2013-?)



STORIA
Zorrillo (come veniva chiamato da piccolo) nasce a Rosarito nell'aprile del '90: all'epoca il villaggio faceva ancora parte di Tijuana e il giovane Héctor comincia a tirare i primi calci al pallone da professionista nel Tampico Madero. In terza divisione, nonostante i vent'anni, Herrera si fa notare da diversi club messicani. Tra questi c'è il Pachuca, affiliato al Tampico Madero: i Tuzos non esitano a portarselo in prima squadra, dove il centrocampista esordisce nell'estate del 2011.
I due anni nello stato di Hidalgo lo fanno crescere, tanto che Herrera viene nominato come giovane più promettente della Liga MX al suo esordio nell'Apertura 2011. Il Pachuca difficilmente si issa nelle zone alte della gradutaoria, ma permette al ragazzo di maturare con calma. Di questi progressi benefica il Messico e sopratutto il Porto, il club che scommette sul talento del centrocampista. Nell'estate del 2013, i lusitani lo prendono per otto milioni di euro, fissando immediatamente sul messicano una clausola rescissoria da 40 milioni di euro.
Come al solito, Pinto da Costa e il suo staff c'hanno visto lungo. Si vede che Herrera ha bisogno di una stagione d'ambientamento, ma il Porto non dubita mai della sua stellina. Il centrocampista non gioca sempre con la prima squadra, qualche volta si ritrova persino a vestire la maglia della squadra B dei Dragoni. Pian piano, il messicano mette insieme minuti e si abitua sia al calcio portoghese che in generale a quello europeo. Lo si vede anche nelle statistiche: complessivamente, Herrera ha collezionato 27 presenze e tre gol nel 2013-14. Ora lo score va molto meglio: l'ex Pachuca ha giocato TUTTE le gare che il Porto ha disputato in quest'annata (15).

CARATTERISTICHE TECNICHE
Quando nella scheda dico "centrocampista completo", è perché identificare Herrera con un unico ruolo sarebbe riduttivo per le sue straordinarie doti tattiche. In teoria è un "8" classico, un volante che ti corre per tutto il campo e che non disdegna l'arrivo in zona-gol. Tuttavia, all'ultimo Mondiale in Brasile, con il suo Messico l'abbiamo visto giocare quasi ovunque: ogni  tanto in regia, spesso da mezzala, a volte anche da trequartista. In un 4-4-2 forse avrebbe qualche difficoltà, ma nel 3-5-2 o nel 4-3-3 (il modulo del Porto), ci sguazza che è un piacere. In casi di emergenza, può giocare persino da esterno destro con una difesa a quattro alle spalle.
A forza di tesserne le lodi dal punto di vista tattico, ci si scorda poi che è un ottimo giocatore anche tecnicamente. Nel fraseggio stretto se la cava piuttosto bene, riuscendo a smistare la palla velocemente tramite una velocità di pensiero superiore. Forse il fisico va potenziato, ma nella Liga attuale non sfigurerebbe da nessuna parte. E il tiro dai 20-25 metri non è niente male.

STATISTICHE
2011/2012 - Pachuca: 27 presenze, 0 reti
2012/2013 - Pachuca: 25 presenze, 2 reti
2013/2014 - Porto: 27 presenze, 3 reti
2014/2015 - Porto (in corso): 16 presenze, 2 reti

NAZIONALE
Nonostante abbia solamente 22 presenze in nazionale, Herrera ha già scritto diverse pagine di storia del Messico. E lo ha fatto sopratutto con l'Under 23. Il centrocampista del Porto, allora al Pachuca, ha fatto infatti parte della spedizione messicana a Londra 2012, quella che poi avrebbe vinto l'oro olimpico contro il Brasile. Già qualche mese prima, Herrera è stato indicato come MVP del Torneo di Tolone, famoso per ospitare i giovani più promettenti sul panorama mondiale. Nonostante i tanti cambi di tecnico subiti dal Messico nel 2013, Herrera è sempre rimasto in squadra. E quando il ct è diventato Miguel Herrera, istrionico tecnico dell'América, il giocatore del Porto è diventato fondamentale. Specie al Mondiale brasiliano, dove ha mostrato tutta la sua duttilità e le sue doti tecniche.

LA SQUADRA PER LUI 
Questo qui non è un consiglio per gli acquisti, ma quasi un ordine prescrittivo. Chi si assicurerà Herrera per i prossimi anni (la gioielleria Porto costicchia), avrà a disposizione un centrocampista dal futuro assicurato. Anzi, mi voglio spingere più in là: questo ragazzo sarà uno dei migliori interpreti nel ruolo dei prossimi cinque-sei anni. L'ultima Coppa del Mondo e il suo inizio di stagione col Porto dovrebbe dimostrarlo. Non vi preoccupate: ne riparliamo al Mondiale di Russia nel 2018 e vedremo chi avrà avuto ragione.

10.11.14

Il ritorno del guerriero.

Dire che il suo ritorno era atteso non rende bene l'idea. Quando ieri Kevin Strootman si è alzato dalla panchina dello stadio Olimpico, con la Roma già in vantaggio 3-0 contro il Torino, la curva giallorossa si è scaldata come mai successo durante la gara. I tifosi - paradossalmente - sembravano più impazienti per l'entrata in campo di KS6 piuttosto che per la vittoria. Torna un pezzo da novanta per la Roma di Garcia, che aveva bisogno del ritorno dell'olandese. Già, "bisogno".

Strootman con la maglia della Roma: è arrivato nell'estate 2013.

Non posso farne mistero: credo che Strootman sia l'elemento di maggior prestigio del centrocampo giallorosso. Sì, anche più di quel Miralem Pjanic, che è nettamente l'uomo con più classe della Roma (dietro a quello con il numero 10), ma che ogni pecca di discontinuità. Strootman, invece, è una macchina, sempre sul pezzo. Parafrasando quello che ha detto Massimo Marianella su John Terry: «Io ho sempre detto che se a Terry crossano una lavatrice, lui la colpisce di testa, fa gol e non si fa nulla». Una metafora che potrebbe calzar bene anche su Strootman, uomo d'acciaio del centrocampo romanista.
Ricordo bene le voci di alcuni tifosi nell'estate 2013: le radio capitoline spesso fanno parlare chiunque, ma certi giudizi andrebbero dosati. In pochi conoscevano il nome dell'olandese: abbastanza grave, visto che Strootman aveva già giocato l'Europeo del 2012. «Sono troppi 17 milioni», sentenziava qualcuno (che possono arrivare a 20 con i bonus). L'allora stella del PSV Eindhoven scrolla le spalle e si mette a lavorare, che è la cosa che gli riesce meglio. Cresciuto nello Sparta Rotterdam, Strootman è stato per sei mesi all'Utrecht, prima che qualcuno a Eindhoven lo prendesse: nel pacchetto da 13 milioni di euro c'era anche un certo Dries Mertens.
Al Philips Stadion, Strootman impara il mestiere da uno che qualcosina nel mondo del calcio l'ha lasciata: Mark van Bommel. Tutta esperienza utile, mostrata anche poi in nazionale. Prima l'Europeo 2012, con il ct van Marwijk che aveva notato il suo talento. Poi l'Under 21, con la quale il centrocampista ha raggiunto il bronzo all'Europeo di categoria del 2013. In nazionale maggiore le cose sono anche migliorate con l'arrivo di Louis van Gaal, che ha indicato Strootman come uno dei suoi tre intoccabili: gli altri due erano Robben e van Persie. Non solo: Kevin è stato anche il più giovane a vestire la fascia di capitano nella storia degli Oranje.
Quando è arrivato a Roma, l'olandese ha dimostrato subito perché la società giallorossa l'ha voluto così tanto, anche a quelle cifre. Innanzitutto la personalità: come numero di maglia, Strootman ha scelto il 6, che a Roma non vedevano sulle spalle di qualcuno dai tempi di Aldair, ritiratosi un decennio prima. Nella prima parte di stagione, l'olandese ha trascinato la Roma: sei gol e sette assist stagionali. Un buon piede, un discreto rigorista, ma sopratutto tanta legna per i giallorossi. Quando poi a marzo Strootman si è rotto il crociato nella trasferta di Napoli, la già difficile rincorsa della Roma allo scudetto si è arenata. E l'olandese ha dovuto dire pure addio al Mondiale brasiliano, dove sarebbe stato sicuro protagonista.


In ogni caso, il centrocampista non si è arreso: durante tutta l'estate, mentre l'Olanda disputava un buon Mondiale, è stato facile reperire i filmati di uno Strootman combattivo, sempre ad allenarsi per anticipare il ritorno in squadra. Ieri è arrivato il rientro in campo dopo tanto tempo. Inizialmente l'olandese avrebbe dovuto giocare un test con la Primavera e poi rientrare a Bergamo contro l'Atalanta, ma Rudi Garcia ha voluto premiarlo. In questi mesi, nonostante la delusione per la mancata partecipazione al Mondiale, Strootman non ha mai mollato.
Qualcuno l'ha paragonato a Roy Keane. Per durezza del gioco, si potrebbe anche tentare la comparazione, ma a volte l'irlandese era gratuitamente duro (guardare qui). Per Strootman il discorso è diverso: se è duro, c'è sempre un perché. Non è uno da falli gratuiti o vendette facile: accanto alla scorza d'acciaio, c'è un cervello calcistico sempre ben fisso verso l'obiettivo. In questo, piuttosto che l'irlandese, Strootman mi ricorda moltissimo un giovane Steven Gerrard, quello prima di Istanbul 2005. Un giocatore generoso, capace di svolgere qualunque ruolo a centrocampo. Non per nulla, prima dell'impresa turca in Champinos, l'età di Gerrard era la stessa di Strootman. E giocavano in maniera molto simile (sebbene il tiro di SG8 sia irraggiungibile).
Intanto, il paragone con Roy Keane ci può stare per un altro motivo: il Manchester United voleva l'olandese a tutti i costi. Prima di affidarsi all'estro e alla creatività di Ángel Di María, i Red Devils hanno provato in tutti i modi quest'estate a prendere l'ex PSV. Non è neanche detto che van Gaal - ora all'Old Trafford - non ci riprovi nell'inverno prossimo o nell'estate 2015. Garcia quest'estate aveva detto la sua sul presunto trasferimento dell'olandese in Premier League: «Se ci offrono cento milioni di euro, possiamo sederci a parlarne...».
Tuttavia, Strootman sembra ormai concentrato sul suo recupero. In fondo, quando ieri è entrato, avrà capito che alla Roma ce l'ha fatta, nonostante l'infortunio subito a metà stagione. Un anno fa, alla sua presentazione, Strootman è stato profetico: «Se ce la faccio a Roma, ce la farò ovunque. Possiamo vincere subito». A posteriori, si può dire che aveva ragione, ma c'è un lavoro di continuare. E il suo ritorno può solo far bene alla Roma che punta allo scudetto. Perché per un'impresa c'è sempre bisogno di un guerriero.

Kevin Strootman, 24 anni, leader maximo della mediana della Roma.

8.11.14

Il figlio del vento.

Niente da fare nemmeno questa volta. Takashi Usami è ancora una volta fuori dai convocati per il Giappone. Un peccato, ma Javier Aguirre - nuovo ct nipponico - non sembra proprio vederlo. In sei gare, nonostante il rendimento dell'attaccante del Gamba Osaka, il suo nome non è mai comparso nelle convocazioni. Intanto, però, Usami ha conquistato nel pomeriggio (fuso orario giapponese) la J-League Cup e punta al treble nazionale con il suo club.

Usami con il Giappone U-23: era l'Olimpiade di Londra 2012.

Il 3-2 ai Sanfrecce Hiroshima è solo una tappa per il Gamba Osaka, rinato dopo la retrocessione del 2012 in J-League 2 e tornato ai massimi livelli. Ma se il club ha saputo conquistare qualche vittoria, un merito ce l'ha anche Takashi Usami. Un predestinato del calcio nipponico, un bambino prodigio. Classe '92, appartiene alla generazione di platino del Giappone. Capace di giocare come trequartista, seconda punta o ala in un tridente d'attacco, Usami ha cercato la sua via per tanto tempo. Il Gamba Osaka non ci ha messo molto ad apprezzarne i progressi e l'ha fatto esordire a 17 anni: l'attaccante entra e segna nello stesso match, battendo entrambi i record di precocità del club. Li aveva stabiliti un certo Junichi Inamoto, leggenda del calcio giapponese.
Con gli anni, Usami è cresciuto all'ombra dell'Osaka Expo '70 Stadium, diventando anche il miglior giovane della J-League 2010. Il suo nome è talmente considerato in Europa che su di lui arriva addirittura il Bayern Monaco. Non è uno scherzo: il trasferimento diventa realtà nell'estate del 2011. Maglia numero 14, un anno in prestito in Baviera con la possibilità di esser riscattato a fine stagione. Per Usami sembra l'inizio di una folgorante carriera: c'è chi preventiva la sua esplosione, come successo con Kagawa a Dortmund. Invece, chiuso da troppi campioni e alle prese con l'ambientamento alla Germania, il giovane prodigio nipponico non vede praticamente mai il campo. Con la squadra riserve del Bayern colleziona sei gol in 18 presenze, ma con i "grandi" appena cinque spezzoni di gara. Heycknes non lo vede, considerandolo troppo acerbo. L'unica effimera soddisfazione è il gol segnato in DFB-Pokal contro l'Ingolstadt.
Usami non si arrende e ci riprova: sempre Bundesliga, stavolta in prestito all'Hoffenheim. La formula è la stessa vista con il Bayern. Markus Babbel, tecnico del club, sembra considerarlo e così il giapponese mostra qualche sprazzo di pura classe. Nel 4-2-3-1 dell'Hoffenheim, gioca da esterno sinistro. La sua velocità e la sua tecnica sono impressionanti: la rete segnata in casa dello Stoccarda è una delle più belle negli ultimi anni del campionato tedesco, così come quella in amichevole al Darmstadt. Usami è discontinuo, ma mostra qualcosa. Purtroppo poi la forma del giapponese peggiora e Babbel viene esonerato. Né Marco Kurz, né Markus Gisdol contano su di lui e gli fanno spendere il resto della stagione in tribuna.
A giugno 2013, il ritorno al Gamba Osaka è l'unica soluzione. Tuttavia, il club neroazzurro non è più uno dei migliori di tutto il Giappone. Anzi, è retrocesso in seconda divisione dopo un campionato molto negativo. L'esperienza in Germania ha fortificato Usami, che in J2 fa quello che vuole: 19 gol in 18 gare e Gamba nuovamente promosso in prima divisione. Una volta tornato in J-League, Takashi dimostra che non ha dimenticato come si giochi: finora, lo score stagionale è di 14 reti e 12 assist in 29 match. Quindi, da quando è tornato in patria, Usami è andato a segno ben 33 volte in 47 partite. Una media-gol mostruosa. Se poi ricordiamo che è stato infortunato per due mesi (forse gli è costato la possibilità di andare in Brasile per il Mondiale), si può dire che è stato un ritorno col botto. Tuttavia, c'è un "ma" grosso come una casa.


Il problema rimane la nazionale. Usami non ha MAI giocato la Nippon Daihyo. Zaccheroni l'ha sempre seguito, ma alla fine non l'ha mai considerato sul serio per la sua scarsa forma in Europa. Solo un paio di convocazioni per Usami: per l'amichevole contro il Perù nel giugno 2011 e per le qualificazioni in Oman nel novembre 2012. Tuttavia, una volta tornato in Giappone, il giocatore del Gamba non è mai stato chiamato, nonostante un'ottima forma. L'ex ct nipponico ha spiegato quale era il problema all'epoca: «La sua crescita dipenderà dal tipo di impegno che ci metterà». Ecco, Usami è sembrato svogliato il più delle volte. Prima dell'esperienza tedesca, gli mancava qualcosa: non rincorreva gli avversari, non era tatticamente disciplinato.
Tutto cambiato al suo ritorno in Giappone. Anzi, Usami è diventato il trascinatore del Gamba Osaka nell'ultimo anno. È passato dall'essere un esterno d'attacco al ruolo di seconda punta: meglio, così deve difendere di meno. Merito del manager Kenta Hasegawa, l'uomo che ha riportato il Gamba in J1. I risultati si sono notati e la media-gol del ragazzo è migliorata. Tuttavia, la storia di Usami con il Giappone ha molto da raccontare: la stella del Gamba ha fatto tutta la trafila nelle giovanili. Dall'U-15 all'U-23, presenze ovunque. Usami ha partecipato a un Mondiale U-17 nel 2009 ed è stato convocato per le Olimpiadi di Londra del 2012. Nella rassegna a cinque cerchi, però, il ct Sekizuka l'ha fatto giocare da titolare solo nella gara contro l'Honduras (col Giappone già qualificato) e in tre spezzoni da 10'-20' nelle gare successive.
Insomma, manca la fiducia nel ragazzo, che aspetta di sfondare con la maglia della Nippon Daihyo. La Coppa d'Asia sarà a gennaio e a fine anno si sapranno i 23 protagonisti che seguiranno il ct Javier Aguirre nella rassegna continentale. Per ora il tecnico messicano non ha mai preso in considerazione Usami, sebbene egli possa far bene nel 4-3-3 del nuovo Giappone. Ora bisognerà vedere se quest'ultimo mese di stagione - dove il Gamba è in corsa per il titolo (-5 dagli Urawa) e per la Coppa dell'Imperatore - può far cambiare idea ad Aguirre. Personalmente lo spero: Usami è un '92, avrà tempo per imporsi. Tuttavia, non si può negare che questo sia il suo momento d'oro. E allora meglio sfruttare quello che sembra un figlio del vento. Lui e le sue percussioni possono far molto, molto comodo al Giappone per confermarsi campione d'Asia.

Takashi Usami, 22 anni, alla caccia di un posto nel Giappone di Aguirre.

6.11.14

Corri, Nahki, corri.

Nove gol in 14 gare. Dopo tanta gavetta nelle serie inferiori del calcio inglese, anche per Nahki Wells sta arrivando il momento della consacrazione. Nella stessa squadra che ha fatto conoscere Jordan Rhodes e che ha rilanciato alla grande James Vaughan, l'attaccante originario di Bermuda si sta imponendo come uno dei giocatori più interessanti in Championship. E intanto l'Huddersfield Town ringrazia: nove punti nelle ultime sei gare.

Wells (al centro) raffigurato in un murales a Bermuda, suo paese natale.

L'ultima marcatura è arrivata nel 3-0 rifilato sabato pomeriggio al Nottingham Forest, che ha iniziato a razzo e ora sta visibilmente rallentando. Un altro gol segnato nel calcio inglese per un ragazzo che inglese lo è sempre un po' stato. Wells infatti è nato a Bermuda, un territorio d'oltremare situato nella zona caraibica e soggetto al controllo britannico. Classe '90, proprio lì l'attaccante ha iniziato la sua carriera. Precisamente a Pembroke Parish, ovvero la casa dei Dandy Town Hornets, forse la squadra più forte del paese. Wells è stato persino convocato per un provino dall'Ajax, ma all'epoca il giocatore ha deciso di rifiutare l'offerta del club olandese.
Arrivato in Inghilterra - precisamente a Leeds - per merito del RIASA Programme (Richmond Internation Academic and Soccer Academy), l'attaccante bermudiano riceve qualche consiglio persino da Shaun Goater, uno che in Inghilterra si è affermato anche in Championship con la maglia del Manchester City. Wells riesce a entrare nell'Eccleshill United F.C., un club amatoriale. Gioca qualche gara, poi il provino con il Carlisle United: esito positivo e arriva l'entrata in squadra. Wells ammette che gli piacerebbe giocare a Wembley la finale del Football League Trophy, ma neanche è in panchina. A quel punto, con sole tre presenze alle spalle, il Carlisle non rinnova l'accordo.
Nell'estate 2011, una coincidenza del caso vuole di nuovo Wells nel calcio professionistico inglese. Le riserve del Bradford City giocano a Plumpton Park, lo stadio dell'Eccleshill United F.C., la squadra da cui tutto era cominciato per Wells. Così i Bantams gli fanno un provino: tutto ok, il club gli offre un contratto annuale. Nel suo vero primo anno da pro nel calcio inglese, Wells segna e si fa notare. I Bantams non possono ignorare i suoi progressi e si comincia a parlare di un accordo per quattro anni. Il giocatore non ha fretta: rimane, ma non firma ancora. Poi l'atteso rinnovo arriva l'annata successiva per tre stagioni. Intanto, però, Wells ha segnato già 38 gol e ha portato il Bradford City in finale di League Cup. Poi ha anche siglato la promozione in League One: sarà l'mvp della finale play-off a Wembley. Proprio lo stadio dei sogni dell'attaccante.
Sembra tutto bellissimo, ma in realtà i problemi sono dietro l'angolo. In terza categoria Wells segna 14 gol in 19 gare nei primi sei mesi del 2013-14, nonostante un infortunio. L'attaccante ottiene il premio di giocatore del mese in League One a settembre 2013 e ha una partnership straordinaria con James Hanson. Ormai anche in Premier League si sono accorti del ragazzo e così è inevitabile il trasferimento. Wells si trasferisce all'Huddersfield Town nel gennaio scorso, in prestito per una partita (una formula possibile solo in Inghilterra). Tuttavia l'acquisto è a titolo definitivo: quattro anni e mezzo di contratto con i Terriers, in Championship. L'anno scorso Wells ha realizzato sei gol in 21 gare, ma quest'anno - dopo l'ambientamento nella categoria superiore - lo score è inevitabilmente destinato a salire.

Wells con la maglia del Bradford City: quattro anni con i Bantams.

Nell'Huddersfield Town, Wells forma il duo d'attacco con Grant Holt. Un altro che ha vestito la maglia del Carlisle nella sua carriera e che ha fatto tanta gavetta prima di consacrarsi in Premier con la maglia del Norwich City. Lo stesso percorso sognato dall'attaccante bermudiano, che intanto ha deciso con due doppiette le gare contro Millwall e Ipswich, per sei punti che fanno molto comodo ai Terriers. Martedì è arrivata la sconfitta contro il Derby County, ma al John Smith's Stadium tutti rimangono fiduciosi sulla possibilità di ottenere la conferma della categoria.
Inoltre, Wells potrebbe anche rivestire la maglia della nazionale. La verità è che è difficile per il ragazzo indossare la casacca delle Bermuda, poiché spesso i break internazionali vedono giocare anche la League One e la League Two, dove finora il ragazzo ha spesso militato. Magari, con il passaggio in Championship, ci sarà la possibilità di vederlo più spesso con i Gombey Warriors, con la quale lo score finora è misero: in quattro anni (venne convocato a soli 17 anni) ci sono sei presenze, accompagnate da due gol nelle qualificazioni al Mondiale 2014. Guarda caso: nelle gare in cui Wells ha segnato, la nazionale ha vinto. Solo che Bermuda è uscita molto presto dalla contesa (era il 2011) e non c'è stata più un'occasione significativa.
Un peccato, visto che il movimento calcistico del paese è ai suoi piedi: è stato definito uno dei giocatori più brillanti del paese e dal futuro eccezionalmente brillante. A dirlo è stato nel febbraio 2012 il ministro dello Sport; un anno e mezzo più tardi, Wells ha incontrato anche il primo ministro Craig Cannonier. Non capita tutti i giorni. Una celebrità delle Bermuda, senza se e senza ma, che esporta l'orgoglio del paese fino in Inghilterra. Peccato che i Gombey Warriors non abbiano nemmeno partecipato alle ultime qualificazioni per la Coppa Caraibica di quest'anno. E allora Wells si fa notare in Inghilterra, dove continua a crescere e a segnare: chissà che il velocista bermudiano non scriva una pagina di storia più in là nel tempo. Magari portando la sua nazionale a qualche competizione ufficiale della Concacaf. Oppure facendo sognare i tifosi dell'Huddersfield Town con i suoi gol.

Nahki Wells, 24 anni, attaccante rivelazione dell'Huddersfield Town. 

2.11.14

Come una macchina.

Sei vittorie nelle ultime sei gare tra Bundesliga, DFB-Pokal ed Europa League. Una panchina lunga e una squadra di far ruotare i suoi uomini senza risentirne. Un allenatore preparato, che ha fatto la gavetta e che ora è pronto a prendersi qualche successo ad alto livello. Siamo in Germania, ma non parliamo del Bayern Monaco. Anzi, ci trasferiamo in Bassa Sassonia, dove il Wolfsburg di Dieter Hecking sta facendo lustrare gli occhi a molti (a quattro punti dai bavaresi).

Alcuni protagonisti del Wolfsburg campione tedesco 2008-09.

Se uno guarda la storia della Bundesliga, si può dire che il Wolfsburg avrebbe sempre potuto fare molto più di quello che ha fatto. Pur avendo alle spalle un colosso commerciale come la Volkswagen, che è stata proprietaria del club fin dagli anni '30. A quei tempi, la squadra era composta da lavoratori dell'azienda motoristica, un po' come come l'Honda F.C. (attualmente in quarta divisione giapponese). Insomma, una corporate squad. Che però con gli anni ha puntato alla scalata del calcio tedesco. E ci sono anche riusciti.
Dopo un trentennio passato tra terza e seconda divisione, il Wolfsburg ha centrato la promozione in Bundesliga nel 1996-97. Molti pronosticato un immediato ritorno del club in cadetteria, ma i verdi riescono addirittura a piazzarsi a metà classifica. Dopo aver vivacchiato tra Europa e retrocessioni sventate durante gli anni 2000, la svolta arriva con l'ingaggio di Felix Magath sulla panchina del club. Il Wolfsburg diventa una squadra spendibile addirittura per il titolo, che arriva a sorpresa nel 2008-09: un'annata straordinaria, condita da tanti record. Mai nessuno aveva vinto dieci gare di fila dopo la pausa invernale, mai nessun club aveva avuto due giocatori con più di 20 gol in campionato (la coppia Grafite-Džeko: 54 gol insieme). E così arriva l'insperato successo.
Dopo l'addio di Magath, il Wolfsburg ha fatto fatica. Il club è tornato a metà classifica: qualche salvezza faticata, poche le soddisfazioni. Poi una piccola risalita nel 2012-13 e il quinto posto dell'anno scorso. Il merito dei buoni risultati dell'ultimo biennio va a Dieter Hecking. Fisicamente ricorda Walter Mazzarri, ma sopratutto ha il merito di aver dato stabilità a una società da sempre conosciuta per il suo patrimonio economico, ma mai sfruttato a pieno.
Ex medianaccio di professione, Hecking non ha mai giocato più in alto della seconda divisione. E proprio lì si è consacrato come allenatore: con il VfB Lübeck ha raggiunto la promozione in 2. Bundesliga. Lasciato libero nel 2004, Hecking si è trasferito sulla panchina dell'Alemannia Aachen, dove ha portato il club di nuovo in Bundesliga dopo 36 anni di assenza. Un mezzo miracolo, premiato con la chiamata dell'Hannover 96 (di cui è stato anche giocatore). E anche qui Hecking non si è smentito, piazzando il club sempre a metà classifica. A quel punto, il tecnico ha rassegnato le dimissioni dopo una brutta partenza nel 2009-10 ed è passato al Norimberga, dove ha condotto la squadra tranquillamente a salvarsi. Le sue performance non sono passate inosservate e così Hecking è stato chiamato al posto di Magath nel dicembre 2012 alla Volkswagen Arena. E da lì non ha più smesso di stupire.

Dieter Hecking, 50 anni, da due stagioni alla guida del Wolfsburg.

Il 4-0 di ieri a Stoccarda ha testimoniato - se mai ce ne fosse alcun bisogno - che il Wolfsburg punta almeno a riconfermare il quinto posto dell'anno scorso. Anzi, l'anno passato i Wölfe sono andati a sfiorare la Champions, persa sul campo del Bayer Leverkusen. Ma quest'anno si può fare meglio, anche perché il campionato tedesco sta dimostrando che le grandi dell'annata passata hanno dei problemini. Lo Schalke ha dovuto cambiare allenatore per risalire. Il Bayer Leverkusen è una squadra dal potenziale assoluto, ma fa fatica a esprimerlo con continuità. E il Borussia Dortmund versa in infortuni e risultati pessimi.
C'è spazio allora anche per il Wolfsburg, che sogna il ritorno in Champions League: i Wölfe c'erano già stati da campioni nazionale nel 2009-10, uscendo subito. Tornarci con una squadra più solida e non sfibrata (molti nell'estate post-titolo sarebbero voluti partire) sarebbe uno scenario migliore. Anche perché - come detto - l'organico è di primo livello, ha una panchina profonda e potrebbe sorprendere anche nell'Europa più grande. Quest'estate il club ha fatto gli acquisti giusti: Bendtner e Aaron Hunt a parametro zero, più il prestito Guilavogui dall'Atlético Madrid e l'arrivo di Jung dal Friburgo per due milioni e mezzo di euro. Inoltre, il Wolfsburg è stato bravo nel rilanciare tante stelle che avevano perso la retta via.
Ivica Olić non sembrava più utile a nessuno, eppure al Volkswagen Arena si è rilanciato. Luiz Gustavo ha ritrovato serenità in Bassa Sassonia, dopo le inquietudini e il poco tempo di gioco al Bayern Monaco. Ivan Perišić e Kevin De Bruyne sembravano due talenti incompleti, ma con Hecking sono diventati devastanti. Entrambi sono tornati in estate dopo un buon Mondiale dal punto di vista personale e lo hanno dimostrato in quest'inizio di stagione. Sopratutto il croato sembra un altro giocatore rispetto a quando arrivò in Germania e non sfigurerebbe affatto al Dortmund, dove Klopp ha deciso di lasciarlo partire un anno e mezzo fa senza tanti complimenti.
Negli altri ruoli non va così male. In porta c'è l'esperto Benaglio e la riserva Grün. In difesa ci sono Rodriguez, Naldo, Knoche e Jung, ma anche Schäfer e Träsch (forse il pacchetto di terzini più completo della Buli). A centrocampo la copertura è garantita proprio da Luiz Gustavo e Guilavogui, mentre nel 4-2-3-1 ci sono una marea di mezze punte pronte a fare il proprio lavoro. Davanti c'è Olić, ma Bas Dost è un'ottima alternativa. Con questa rosa il Wolfsburg può puntare al doppio bersaglio: posto in Champions e gloria in Europa League, dove il club è uno dei più forti della competizione. Chissà che alla Volkswagen Arena non ci sia nuovamente qualcosa da festeggiare a maggio. Per ora il Wolfsburg macina chilometri senza problemi. Come una macchina...

Ivan Perišić, 25 anni, una delle stelle del club della Volkswagen.