29.5.12

ROAD TO JAPAN: Hiroki Yamada

Oggi inauguro una delle due nuove rubriche che saranno presenti in questo blog ogni mese. La rubrica di oggi si basa principalmente su una delle mie passioni: il calcio giapponese. Sono un tifoso della nazionale da anni ormai e mi sembra giusto metter in luce i nuovi talenti che questa generazione sta offrendo al calcio giapponese. Sono tanti, tantissimi. E se saranno bravi e fortunati, sfonderanno come altri hanno già fatto (vedi Keisuke Honda o Shinji Kagawa). Ma, per dare una mano a qualche osservatore italiano, ogni fine mese farò un resoconto su un prospetto interessante proveniente dalla J-League, il campionato giapponese. E gli onori di casa non poteva che farli un giocatore che sta crescendo a vista d'occhio: Hiroki Yamada.

SCHEDA
Nome e cognome: Hiroki Yamada
Data di nascita: 27 Dicembre 1988
Altezza: 1.73
Ruolo: Centrocampista offensivo
Club: Jùbilo Iwata (2011-?)



STORIA DI UNA STELLA
Nato ad Hamamatsu, grande città della prefettura di Shizuoka, Hiroki Yamada è cresciuto ad un passo da tutto ciò che riguardava lo Jùbilo Iwata, la sua attuale squadra. Sì, perché gli azzurri giocano proprio nella regione dove Yamada è cresciuto. A giudicare da come si esprime sul campo, è cresciuto piuttosto bene: fin da piccolo ha mostrato le sue qualità nella scuola pubblica di Fujieda Higashi fino al 2007, per poi farle esplodere alla Meiji University. Grazie alle sue prestazioni, si è guadagnato anche il posto nella squadra giapponese che ha partecipato alle Universiadi del 2009, ottenendo la medaglia di bronzo.
Dopo la laurea, ci sono state le offerte per lui da parte dei Kashima Antlers (club pluri-scudettato in J-League) e, appunto, dal Jùbilo Iwata. Yamada non ci ha pensato due volte e ha firmato per il club della sua regione. Sebbene il suo debutto fosse previsto già nella stagione 2010, esso slitta all'anno successivo. Esordisce in casa del Ventforet Kofu il 5 Marzo del 2011; il primo gol, invece, arriva in casa contro il Montedio Yamagata il 7 Maggio del 2011.
All'inizio del campionato, la sua presenza in campo non è fissa, visto che parte spesso dalla panchina; poi però conquista il tecnico Yanagishita, che lo mette nella formazione titolare senza mai pentirsene. Sono 29 le presenze che il numero 10 colleziona, condite da 5 gol e numerosi assist. Purtroppo, uno strappo muscolare prima ed una frattura del quinto osso metatarsale poi lo mettono fuorigioco a fine stagione.
La novità nel 2012 è che Hiroki è diventato addirittura capitano dopo una sola stagione: scelta saggia, dato che lo Jùbilo sta scalando la classifica e giocando un calcio spettacolare grazie a lui e tanti altri giocatori interessanti.

CARATTERISTICHE TECNICHE
Ricorda lo Shunsuke Nakamura visto in Europa, ma più completo. Non usa un solo piede, anzi: la capacità di essere un ottimo ambidestro è coniugata da una grande visione di gioco ed un senso dell'assist innato.

STATISTICHE
2011 - Jùbilo Iwata: 36 presenze, 5 gol
2012 - Jùbilo Iwata: 13 presenze, 6 gol (in corso)

NAZIONALE
Ancora nessuna presenza per Yamada in nazionale. Zac lo ha adocchiato, ma ancora non l'ha fatto giocare. Solo un training-camp per lui. E pensare che sarebbe il sostituto perfetto di Keisuke Honda, che ha vissuto un periodo non facile, fatto di infortuni che lo hanno bloccato quest'inverno.

LA SQUADRA PER LUI
In Italia, tanti avrebbero bisogno di uno così. La mente vola a squadre come il Palermo (che ha visto un Ilicic in chiaroscuro) e la Fiorentina (che necessita di fantasia davanti). Paradossalmente, potrebbe dire la sua anche in un calcio tecnico come quello spagnolo. Speriamo che il ragazzo sia presto protagonista in Europa, è potenzialmente un fenomeno. Senza se e senza ma.



27.5.12

Il sogno proibito.

E pensare che parliamo della nazionale più forte della storia del calcio, almeno per quanto concerne i risultati: 5 FIFA World Cup, 3 Confederations Cup, 11 Copa America. Senza contare i piazzamenti ed i campioni che questo paese ha regalato ai posteri di questo magnifico sport. Eppure, al Brasile, è sempre mancata una cosa: la medaglia d'oro olimpica.

Molti di voi penseranno, forse anche giustamente: con un palmares del genere, cosa può importare al Brasile di avere o meno vinto la competizione calcistica che si svolge durante le Olimpiadi? Molto, a quanto pare. E' per completare una sorta di "full calcistico", una bacheca strapiena mancante di un unico alloro. Un po' come era quella del Chelsea fino a qualche settimana fa o - per fare un caso eclatante - quella del Barcellona fino al 1992, entrambe riempite di trofei, che però vedevano l'assenza della Coppa Campioni (o Champions League). Il paragone suona addirittura più propizio accostandosi ad un altro sport come il basket, dove ogni volta che c'è un Olimpiade, gli Stati Uniti sono i favoriti per vincerlo e se ciò non accade, tutto il mondo rimane sgomento, chiedendosi come i maestri della palla a spicchi possano aver fallito. Ecco, nel calcio con il Brasile, avviene lo stesso identico processo.
Presente a tutte le edizioni della Coppa del Mondo finora disputate fin dal 1930, il Brasile aveva già nel 1970 tre di questi titoli, tanto da ipotecare l'antica Coppa Jules Rimet nella finale di quell'anno, vinta per 4-1 contro l'Italia nell'edizione messicana di quei mondiali. Eppure, il primo risultato significativo a livello olimpico arriva solo sei anni dopo, alle Olimpiadi svoltesi in Canada: le semifinali sono il primo traguardo dopo una marea di eliminazioni alla fase dei gironi. E pensare che nel 1980 e nel 1992 non arriverà neanche alla fase finale..

Nel 1984 e nel 1988, la nazionale olimpica verde-oro raggiunge il secondo posto. Una beffa. Nell'Olimpiade di Los Angeles, il Brasile arriva fino alla finale per poi farsi battere dalla Francia, nonostante un certo Carlos Dunga in squadra; in quella coreana di quattro anni dopo, la squadra è ancora più forte, impreziosita dalle presenze di quelle che saranno poi alcune delle colonne portanti delle successive stagioni d'oro del Brasile: Claudio Taffarel, Bebeto e Romario, tanto per fare qualche esempio, sono parte di quella spedizione olimpica. Nonostante l'aver dato spettacolo nel girone preliminare ed aver vinto quarti e semifinali rispettivamente contro Argentina e Germania Ovest, il Brasile s'arena sul più bello, perdendo la finale di Seoul contro l'allora Unione Sovietica per 2-1. Insomma, ai brasiliani riesce tutto nel calcio, tranne vincere la medaglia d'oro olimpica.

E allora diventa un'ossessione. E quando, nel calcio, si ha un'ossessione di vincere qualcosa, non sempre si porta a termine il progetto prestabilito. Nonostante, come nel caso del Brasile, le nazionali olimpiche diventino sfilate di campioni. Ad Atlanta, nel 1996, il tecnico Zagallo (lo stesso che aveva vinto la Coppa del Mondo sia da giocatore nel 1958 che da allenatore nel 1970) si porta Dida, Roberto Carlos, Flavio Conceicao, Zé Maria, Ronaldo, Zé Elias e Juninho Paulista; non contento, vi aggiunge anche tre fuoriquota come Aldair, Rivaldo e Bebeto. Apparentemente imbattibili, non c'è nessuna nazionale che potrebbe reggere il confronto. Eppure, già nel gruppo preliminare si passa solo per la differenza reti nei confronti del Giappone (che, comunque, aveva sconfitto i verde-oro); il dramma, però, si consuma in semifinale, dove la Nigeria sorprende tutti e rimonta i 3 gol presi nella prima mezz'ora, spuntandola per 4-3 ai supplementari, grazie all'allora stella emergente Nwankwo Kanu. Gli africani poi vinceranno la medaglia d'oro e a poco servirà il 5-0 rifilato dal Brasile al Portogallo per la medaglia di bronzo: un altro fallimento.

Nwankwo Kanu, 35 anni, in lotta con Roberto Carlos, 39, nella semifinale olimpica del 1996.


Gli anni successivi vanno anche peggio: nel 2000, a Sydney, una nazionale ridimensionata con Helton, Alex, Edu, Geovanni, ma sopratutto Lucio e Ronaldinho, non fa meglio dei quarti di finale, in cui viene eliminata dal Camerun ai supplementari. Gli africani vinceranno anch'essi la medaglia d'oro, confermando una sorta di karma che pervade il triangolo sportivo tra Brasile, nazionali africane e supplementari. Nel 2004, ad Atene, il Brasile neanche c'è: la medaglia olimpica pare, onestamente, un miraggio.

Tutto però sembra cambiare nel 2008: si vuole preparare l'evento al meglio delle proprie possibilità, con i giocatori più forti che ci siano, per raggiungere l'obiettivo tanto agognato. La squadra è la più forte che si ricordi a memoria d'uomo: Diego Alves, Rafinha, Hernanes, Marcelo, Anderson, Lucas Leiva, Pato, Ramires, Diego, Thiago Neves, Rafael Sobis e Jo. A questi, si aggiungono due fenomeni come giocatori fuori-quota: Thiago Silva, allora ancora al Fluminense, e Ronaldinho, che aveva iniziato da poco la sua avventura al Milan. Insomma, un Dream Team come pochi nella storia. Sembrava che neanche l'Argentina di quell'edizione potesse impattare l'armata brasiliana, nonostante un'ottima compagine viste le presenze di Garay, Gago, Lavezzi, Di Maria, Aguero, Mascherano, Messi e Riequelme tra le sue fila.
9 punti nel girone con Belgio, Nuova Zelanda e Cina, ma i primi guai arrivano già ai quarti: il 2-0 faticato nei supplementari contro il Camerun non faceva promettere bene per i ragazzi di Carlos Dunga. Il 3-0 che il Brasile subirà dall'Argentina nella semifinale del 2004 rimarrà una delle dimostrazioni di superiorità più forti mostrate al mondo dei Giochi Olimpici: Aguero e Riequelme rasano al suolo le speranze brasiliane, che si chiudono con l'ennesimo piazzamento ed una medaglia di bronzo che sa più di sconfitta che di premio per le proprie fatiche.

Ronaldinho, 32 anni, contrastato nella semifinale olimpica del 2008 da Lionel Messi, 25.


I Giochi Olimpici del 2012 si avvicinano: inutile dire che è l'ennesima occasione. Stavolta sarà però più difficile: il team della Gran Bretagna porterà forse Bale, Giggs e Beckham insieme, per avere la sicurezza di vincere almeno una medaglia. La Spagna produce talenti su talenti e ha vinto il Campionato Europeo U-21 dell'anno scorso senza faticare troppo. Ed i verde-oro? Stavolta porteranno il meglio del meglio. Questa medaglia d'oro non è più un'ossessione solo per il movimento calcistico in generale, ma per alcuni giocatori: più di un giocatore brasiliano di alta caratura si è offerto di essere presente alle prossime Olimpiadi per spezzare questa sorta di maligno incantesimo. Pato e Thiago Silva vorrebbero riprovarci. Il Brasile avrà in più Neymar e Lucas, nuovi fenomeni del calcio brasiliano. A loro, Mano Menezes potrà aggiungere due tra Marcelo, Hulk e David Luiz come ulteriore fuori-quota ed avere in squadra giocatori veramente promettenti come Danilo, Juan Jesus, Rafael, Sandro, Casemiro, Oscar e Leandro Damiao.

Insomma, ne vedremo delle belle. Chissà se, anche a Londra, la medaglia d'oro olimpica rimarrà il sogno proibito dei giovani brasiliani.

Neymar, 20 anni, prossima stella brasiliana nel Dream Team olimpico di quest'anno.

22.5.12

Piccoli miracoli.

Cosa hanno in comune un capoluogo di provincia abruzzese della nostra penisola e la capitale del dipartimento francese di Hérault? Fino a domenica sera, praticamente nulla. Finché non sono accaduti due piccoli miracoli in poche ore.

Andiamo con ordine: ore 20.00 di domenica sera. Il primo miracolo si concretizza in Italia, a Genova. Città di mare, piena di sogni per i tifosi pescaresi arrivati in migliaia. E questi sogni sono divenuti realtà: con la vittoria per 3-1 sul campo della Sampdoria, il Pescara torna in Serie A  dopo ben 19 anni dall'ultima volta, quando in panchina c'era Galeone ed in campo un calcio spettacolo. Ecco, quest'ultimo elemento si è ripetuto nella promozione di quest'anno: del resto, era impossibile evitarlo con Zdenek Zeman in panchina.
Il boemo, proprio lui. Quello che parlò - per la prima volta - del calcio nelle farmacie, quello a cui i muscoli di Vialli e Del Piero sembravano troppo "pompati", quello che era inviso al sistema. Beh, da ieri è tornato nei piani alti del calcio con pieno merito, lavorando in una piazza che gli ha consentito di essere semplicemente il "filosofo", come lo chiamava qualcuno ai tempi delle sue stagioni a Roma. Zeman, dopo un anno di ripresa con il Foggia in Lega Pro, ha optato per l'avventura a Pescara, circondandosi di un gruppo di giovani senza troppe credenziali, ma credendo ciecamente nel suo dogma calcistico, ovvero il 4-3-3 che tanto ha fatto brillare gli occhi negli anni '90 con il suo Foggia prima, con Lazio e Roma poi.
Sembrava lontano Zeman: negli ultimi anni, solo a Lecce nel 2004/2005 aveva lasciato un buon ricordo. E non solo quello: quella squadra fu la prima, nella storia della Serie A, ad avere la peggior difesa del campionato e a non essere retrocessa. Un record, come solo Zeman sa produrli. Poi il boemo si era un po' perso, tra avventure andate male ad Avellino, Brescia, un ritorno a Lecce che non è andato come egli sperava e la catastrofe a Belgrado, con la cacciata dalla Stella Rossa dopo appena tre giornate di campionato. Sembrava il tramonto ed i suoi detrattori non potevano esserne più contenti.
Poi, Pasquale Casillo (presidente del Foggia anche nell'epoca d'oro) lo richiama per guidare la squadra in Lega Pro nella stagione 2010/2011. La formula è simile a quella che adotterà a Pescara: tanti sconosciuti, nessun obiettivo fermo tranne la salvezza ed il suo credo calcistico a contraddistinguere la squadra. I pugliesi finiscono al 6° posto, fuori dalla zona play-off, ma con ben 67 gol fatti e con il titolo di capocannoniere a Marco Sau, suo giocatore all'epoca.
Deluso dai risultati ottenuti, decide di cambiare aria e la città pescarese accoglie il "filosofo" nella città che ha visto nascere uno come Gabriele D'Annunzio: in effetti, il calcio che il Pescara ha espresso quest'anno è una sorta di poesia. Che molti conoscono, ma che nuovi interpreti hanno reso entusiasmante e seguito da molti. Molti non avrebbero puntato un euro forse neanche sul Pescara ai play-off, figuriamoci in Serie A tramite promozione diretta; ma, guardando questa Serie Bwin 2011/2012, il verdetto finale sembra più che giusto.
Basta snocciolare solo alcuni dati: 89 gol fatti (e manca ancora una giornata), 55 subiti (non troppi per una difesa zemaniana), 25 vittorie e ben 3 giocatori nella top 10 dei marcatori, ovvero Immobile (28 gol), Insigne (18) e capitan Sansovini (16). Ma sopratutto il boemo ha avuto il merito di creare un gruppo vero, come testimonia la richiesta a fine partita da parte di Immobile di rimanere tutti insieme in Serie A. Un gruppo capace di rialzarsi dalle difficoltà di una stagione più tremenda di quello che la classifica dice: non so quanti avrebbero avuto la forza di rialzarsi di fronte alla perdita prima di Franco Mancini (ex portiere di Serie A e facente parte dello staff dell'allenatore) e a quello di Morosini poi. Vero che il numero 25 del Livorno non giocava per il Pescara, ma l'episodio è avvenuto allo Stadio Adriatico, a poca distanza da quello accaduto a Mancini: insomma, non è stata una stagione facile per quella che è una squadra relativamente giovane, ma sopratutto con poca esperienza.
Ed il fatto di aver creato un gruppo vero lo si è visto anche nella festa: per la prima volta, Zeman è sembrato commosso. Chiaro che la perdita di un suo caro amico come Mancini abbia influito, ma è parso anche coinvolto da questa mandria di ragazzini che gli hanno ri-cambiato la vita: ora la Serie A e chissà dove arriverà Zemanlandia questa volta.

Zdenek Zeman, 65 anni, festeggiato dai suoi ragazzi dopo la promozione conquistata a Genova.


Basta andare un paio d'ore avanti per vedere l'altro miracolo di giornata: sono le 23.00 serali quando il Montpellier Hérault Sport Club diventa, per la prima volta nella sua storia, campione di Francia. Lo fa nella maniera più incredibile e meritata, con una rimonta sul campo dell'Auxerre che spegne i sogni dei petrodollari parigini di vincere la Ligue 1. Incredibile la storia di questa squadra: magari meno pubblicizzata di Zemanlandia perché di provenienza transalpina, ma fantastica.
Il Montpellier - con la sua attuale denominazione - nasce nel 1974 dalla fusione di tre club esistenti all'epoca: il proprietario è lo stesso di allora, ovvero Louis Nicollin, proprietario di un'impresa di smaltimento della "monnezza" che fattura parecchi soldi. Ma, nonostante ciò, Nicollin cura il proprio club - parole sue - "come la figlia che non ha mai avuto": il MHSC fa su e giù tra prima e seconda divisione, vince la Coupe de France nel 1990, ma non si fa notare per molto altro. Passano dalle parti della città della Linguadoca Laurent Blanc, Roger Milla e Carlos Valderrama, manca però un progetto di squadra competitiva che possa portare da qualche parte.
Sono due i tasselli che rilanciano definitivamente il Montpellier verso l'alto: la promozione in Ligue 1 conquistata nel 2009 e l'assunzione di René Girard come tecnico della squadra nell'estate dello stesso anno. Girard, collaboratore dei C.T. francesi durante l'epopea d'oro delle vittorie ai Mondiali ed agli Europei, ha appena concluso il suo incarico come C.T. dell'U-21 francese, in cui ha ottenuto una semifinale agli Europei di categoria del 2006, ma anche una non-qualificazione alla fase finale dell'anno successivo.
Tuttavia, il Montpellier ottiene - da neo-promossa - uno stupefacente 5° posto nella stagione 2009/2010, ottenendo anche il pass per l'Europa League: un risultato pazzesco, evidenziato ancor di più dalle candidature di Karim Ait-Fana per il giovane dell'anno e di Girard per manager dell'anno. Le fortune del Montpellier nascono tutte in casa, senza spendere nulla: capitan Yanga-Mbiwa (nella lista di pre-convocati di Blanc per la Francia), Cabella, Belhanda, Ait-Fana sono tutti prodotti delle giovanili del Montpellier, tutti frutti che Girard raccoglie immediatamente per costruire la spina dorsale della squadra.
Poi, nell'estate del 2010, il mattoncino da 90: il MHSC prende Olivier Giroud, all'epoca nominato miglior giocatore della Ligue 2 con la maglia del Tours e capocannoniere del torneo con 21 gol. E' il colpo di una vita: non è costato nulla, ma farà le fortune di Girard e compagnia. E pensare che il Grenoble, sua prima squadra professionistica, lo scartò perché non lo riteneva pronto per certi livelli..
Nel 2010/2011, Giroud si conferma come uno dei prospetti più interessanti del calcio europeo a suon di gol: il classe 1986 ne realizza 12, ma sopratutto fa intravedere un potenziale pronto ad esplodere. Di contro, il Montpellier si salva di soli tre punti dalla retrocessione. Non sembra certo che la squadra sia pronta per andare più in alto.
Eppure qualcosa cambia: non tanto nella squadra, che vede sì l'ingresso di un giocatore esperto come John Utaka e di quello che si rivelerà uno dei migliori difensori di quest'anno, Henri Bedimo Nsame; bensì nell'organizzazione di gioco, capace durante questa stagione di sciorinare buon gioco, ma anche di difendere bene in un campionato con tanti gol come quello francese. Metteteci anche il boom di due talenti come Giroud e Belhanda ed il gioco è fatto: se del francese si era intuito qualcosa, Belhanda esplode in maniera prepotente, realizzando 12 gol ed arrivando a far dire a Girard che gli ricorda un certo Robert Pires.
E la cosa più incredibile è che il Montpellier, quest'estate, ha speso due milioni di euro. Due. Per fare una squadra che ha vinto per la prima volta il campionato francese. Cose dell'altro mondo.
Il resto è storia: Giroud realizza 21 gol e sopratutto 9 assist, Belhanda fa 12 gol (tra cui una perla al Marsiglia), la squadra tiene bene quello che doveva essere lo strapotere del Paris Saint-Germain di Ancelotti e Leonardo e riesce nell'impresa. Ieri, a Auxerre, qualche fantasma s'era visto dopo il vantaggio dei padroni di casa: ma il MHSC si è ripreso bene e la doppietta di Utaka ha regalato al club francese il primo titolo della sua storia. E a me una bellissima storia da raccontare.

Il Montpellier festeggia in città il suo primo titolo della storia del club.

20.5.12

1984, parte seconda.

No, il titolo non è un rimando al famoso libro dell'autore inglese George Orwell, né un richiamo al Grande Fratello di sua lontana memoria. E' il riferimento ad un preciso anno calcistico, nel quale la finale dell'allora Coppa Campioni regalò al calcio uno psicodramma collettivo: Roma-Liverpool 2-4 dopo i calci di rigore. E diciamocelo: la finale di ieri assomiglia tanto a quella disputatasi nella capitale italiana il 30 Maggio del 1984.

28 anni dopo, lo scenario si ripete. La squadra più in forma gioca in casa, con la possibilità di vincere la più importante  competizione calcistica per club nel proprio stadio. Gioca meglio dell'avversario, sopporta la pressione del giocare in casa per vincere questo trofeo, ma si finisce comunque ai calci di rigori. E dove gli inglesi hanno la meglio.
Il Bayern Monaco, ieri, ha avuto la sfortuna di rivivere lo stesso dramma calcistico: fin da inizio anno, in Baviera, non si sperava altro che raggiungere la finale di Champions, per poi sollevarla di fronte al pubblico di casa. Chiunque fosse l'avversario. I ragazzi di Heynckes avevano fatto il loro dovere per bene: vittoria nei preliminari contro il Zurigo, qualificazione con un turno d'anticipo nel più difficile girone della storia Champions League che io ricordi (ammetto di andare a memoria..), passaggio del turno ottenuto in maniera serena contro Basilea prima e Olympique Marsiglia poi, fino all'impresa contro il Real Madrid, con una finale strappata ai rigori, grazie alle mani fredde di Manuel Neuer.
Più incidentato il percorso del Chelsea, che ha fatto fatica in un girone difficile ma non impossibile contro Genk, Bayer Leverkusen e Valencia, prima di rischiare seriamente l'eliminazione contro il Napoli (e possiamo solo immaginare i rimpianti dei tifosi partenopei mentre ieri vedevano la partita..); poi la svolta con Di Matteo ed i 4 risultati utili contro Benfica e Barcellona, strappati più con il cuore che con un vero gioco propositivo.

La finale partiva con i pronostici a favore del Bayern, per il fatto di giocarsela in casa e per le assenze del Chelsea, di gran lunga più pesanti di quelle dei bavaresi: nei blues, la mancanza di giocatori come Terry, Raul Meiereles, ma sopratutto Ivanovic e Ramires (due giocatori fondamentali in questa campagna europea) si sono sentite pesantemente. Al confronto, le assenze di Alaba, Badstuber e Luiz Gustavo sono passate quasi inosservate nel Bayern, che ha fatto la sua partita; in modo peggiore rispetto ad altre volte, ma l'ha fatta. I tedeschi hanno creato 4-5 palle gol nitide durante tutto il match, sembravano aver portato la partita a casa con il gol dell'instancabile Thomas Mueller e hanno tirato per ben 35 volte verso la porta del Chelsea durante tutto il match. Ma non avevano fatto i conti con il leone della Costa d'Avorio, Didier Drogba.

Facile dire che il numero 11 dei blues sia stato l'uomo partita: ancor più del gol del pareggio (decisivo sotto il punto di vista psicologico), è stato il lavoro sporco compiuto dall'ivoriano a stupire tutti durante il match. Il Drogba di queste ultime partite in Champions con la maglia del Chelsea ricorda, neanche troppo vagamente, quell'Eto'o che nel 2010 faceva il terzino nell'Inter che sfidava il Barca al Camp Nou. Il camerunense lo faceva per Mou; probabile che Drogba l'abbia fatto per l'amore che prova nei confronti di questa maglia più che per Di Matteo, che ha un solo grande merito: quello di aver rimesso in gioco molti senatori ed aver impostato il massimo che poteva ottenere da campioni come Lampard, Ashley Cole, lo stesso Drogba, Terry. Campioni sì, ma ormai agli sgoccioli delle loro carriere.

Già, Di Matteo. E' arrivato per caso. Era il secondo di Villas-Boas e ha dovuto sostituirlo per quello che si pensava sarebbe stato un periodo di transizione. E invece ha stupito tutti. Non certo dal punto di vista del gioco, che ha lasciato parecchio attoniti: difendersi in dieci dietro la linea della palla è un gioco che molti sanno applicare. Anche la fortuna l'ha accompagnato in maniera enorme. Ma sono i risultati che hanno parlato in suo favore. In Premier ha continuato a vivacchiare, ma - ridendo e scherzando - è arrivato dove nessuno nell'era Abramovich era mai riuscito: la vetta d'Europa. Metteteci anche la F.A. Cup ed il quadro è estremamente soddisfacente sia per lui che per i suoi tifosi.

Abramovich, il ricco proprietario della squadra di Londra, probabilmente mai si sarebbe aspettato quest'epilogo. E' vero, comprò il Chelsea nel 2003 proprio per arrivare a sollevare la "coppa dalle grandi orecchie". E ha speso ben 2.5 miliardi di euro per arrivare a quest'obiettivo. Ma non è forse ironico che ci sia arrivato nell'anno peggiore della sua era come proprietario dei blues? Nell'anno in cui ha pagato 15 milioni la penale per liberare per Villas-Boas, a cui però vanno date delle attenuanti, dato che i giocatori per correre come al Porto non esistevano di certo nel Chelsea di oggi. Nell'anno in cui il Nino Torres si mangia un gol clamoroso all'Old Trafford. Nell'anno in cui si perde ovunque, senza attenuante. Nell'anno in cui i senatori venivano messi da parte ed i risultati non arrivano. Nell'anno - sopratutto - in cui si è speso di meno. Molto ironico, non è vero?

Ed il Bayern? Innanzitutto i complimenti vanno a Heynckes: credo che nessuno si aspettasse un epilogo del genere per la squadra più titolata di Germania. A Monaco, speravano di vincere qualcosa; se non proprio la Champions, almeno il campionato. Ed invece il Borussia Dortmund è stato l'asso pigliatutto in terra nazionale, mentre i 3 tenori davanti hanno deluso: Gomez è stato impalpabile, Ribery ha fatto vedere poco e Robben ha sbagliato il rigore che nei supplementari avrebbe dato nuovamente il vantaggio al Bayern. Gli unici salvabili sono stati probabilmente Mueller, Kroos e sopratutto Manuel Neuer: il fatto che sia andato a tirare un rigore in una finale di Champions League, da portiere, dimostra non tanto la classe, quando la freddezza del ragazzo. Poca è stata invece quella di Schweinsteiger: l'immagine del numero 31 bavarese in lacrime dopo l'errore decisivo è la sintesi di come arriva il plotone Bayern all'Europeo: riuscirà la Germania a rialzarsi nella competizione europea, nonostante questo psicodramma?

Didier Drogba, 34 anni, batte Manuel Neuer, 26, nel rigore decisivo per la conquista della Champions.

17.5.12

BVP: Bellezza, Verde Età, Programmazione.

Non è facile scegliere la migliore squadra europea della stagione che sta per finire. Ad inizio stagione, sarebbe stato facile dire Barcellona, ma non è andata bene né in Champions, né in campionato. La Liga l'ha vinta il Real, ma ha fallito clamorosamente l'appuntamento con la finale dell'Allianz Arena contro un super Bayern, perdendo ai rigori. Nel suo stadio, proprio i tedeschi giocheranno la finale di Champions, che comunque non compenserebbe le delusioni interne in coppa e campionato. Forse il Chelsea potrebbe dare una svolta positiva alla stagione: dopo la conquista della F.A. Cup, la Champions sarebbe la giusta controparte di una prima parte disastrosa di stagione. E chi rimane allora?
Beh, è ovvio: il Borussia Dortmund, alias BVB, sembra vincere a mani basse.

Non era facile. Non era facile dimostrare che l'anno scorso non fosse stato un caso, come lo era stato per lo Stoccarda (ben due volte), il Werder o il Wolfsburg. Il Borussia ha fatto di più: non solo si è confermato nel risultato, ma ha incrementato consistenza ed impianto di gioco. Risultato? Bis nel campionato e vittoria anche in Coppa di Germania. In Champions League è andata male, con l'uscita nel girone, ma l'esperienza fatta quest'anno aiuterà i ragazzi di Klopp a migliorare nella prossima stagione. Vediamo però come si è formato questo piccolo miracolo.

Il primo mattoncino della dirigenza giallonera per tornare ai massimi vertici del calcio tedesco è stato l'ingaggio dell'attuale mister, Jurgen Klopp, nel 2008: un mattoncino che pesa tanto. Klopp, 44 anni oggi, veniva da 18 anni di Mainz, vissuti prima da giocatore (11) e poi da allenatore (7), in cui porta la squadra per la prima volta in Bundeslinga e si concede anche lo sfizio di regalarle la vetrina europea, con un'apparizione nella vecchia Coppa UEFA. Purtroppo, arriva anche una retrocessione e la mancata risalita l'anno successivo lo spinge a dare le dimissioni. Non ci vuole molto perché trovi un nuovo lavoro: il Borussia Dortmund lo assume dal Luglio del 2008 e comincia un percorso di crescita, con un sesto ed un quinto posto ottenuto a confermare la bontà delle doti dell'allenatore tedesco. Con le dovutissime proporzioni, ricorda molto Carlo Ancelotti: sa tutto dei suoi ragazzi, ne conosce pregi, difetti e fidanzate/mogli, è pronto a sostenere ogni suo giocatore nei momenti di difficoltà e crea per loro un modulo di gioco in grado di esaltare le qualità di ogni singolo. In più, rispetto ad Ancelotti, è un personaggio sicuramente pittoresco, tanto da essere oggetto anche di svariate parodie.



Chiaro che l'allenatore è la mente di questo successo, ma senza un braccio affidabile, tutto ciò non sarebbe stato possibile. E qui veniamo ad un punto importante: il successo del Dortmund è basato su un progetto senza spese folli, con un profilo economico che sarebbe abbordabile per almeno una decina di società di Serie A. Purtroppo, il progetto bisogna programmarlo ed avere pazienza, cosa di cui sono sicuramente disposti gli 80.000 tifosi che ogni week-end riempiono il Westfalenstadion e non i tifosi di casa nostra. Basta vedere qualche storia di alcuni protagonisti dei successi del Dortmund odierno per capire come sono andate le cose: solo Weidenfeller, il capitano Kehl, Błaszczykowski e Dedé erano pezzi storici del BVB (o, quantomeno, non recenti) ancora in squadra. Gli altri sono tutti arrivati e maturati negli ultimi anni sotto la guida del straordinario Klopp.
Schmelzer, Gotze, Grosskreutz e Nuri Sahin sono prodotti del vivaio del Borussia Dortmund, che ha lavorato su questi ragazzi fin da età giovanissima. Nel 2008, con Klopp, arrivano Subotic (proprio dal Mainz) e Hummels (rimpianto delle giovanili del Bayern) e Felipe Santana: i primi due formeranno quella che attualmente, almeno secondo il mio punto di vista, è la coppia di centrali più forte in club professionistico di calcio. Nel 2009, tocca a  Bender e Barrios; nel 2010, i pezzi per completare il puzzle sono Lewandowski, Piszczek e sopratutto Kagawa, arrivato per un pugno di soldi (350.000 euro) dal Giappone e decisivo nella prima parte di campionato. Il primo titolo arriva in carrozza, con un gioco scoppiettante e con svariate giornate d'anticipo. Sembra quasi una passeggiata. Con la partenza di Sahin verso Madrid e le aspettative grandissime sui ragazzi di Klopp, la riconferma appare impresa piuttosto ardua.



La cosa sorprendente riguardo il BVB è che si riparte come se non si fosse vinto nulla: i giocatori che partono vengono sostituiti con altre scommesse, senza alcun timore. Se Sahin va da Mourinho, arriva Ilkay Gundogan, centrocampista tedesco di origine turche, dal Norimberga, autore di un'ottima stagione. Si fa male Gotze? Non c'è problema, si tira fuori dal letargo Kuba Blaszczykowski e tutto si mette a posto. Barrios s'infortuna e va incontro alle ire della società, perché vuole un rinnovo con un ingaggio altissimo? Don't worry, c'è Robert Lewandowski che è pronto al grande salto. Metteteci anche la rinascita di Sebastian Kehl, capitano mai domo, ed uno straordinario ma ancora acerbo Ivan Perisic, che si concede anche il lusso di segnare all'Arsenal, ed il gioco è fatto.
Certo, i primi due mesi sono difficili: sconfitta con gli odiati cugini dello Schalke 04 in Supercoppa, solo 7 punti nelle prime 6 giornate ed in Champions andrà tutto male, con ben 4 sconfitte sui sei incontri del gironcino. Ma il neo europeo non può oscurare ciò che accade dopo: dal 19 Settembre 2011, in campionato arrivano 23 vittorie e 5 sconfitte, con due vittorie contro il Bayern a chiudere i conti. E pensare che i bavaresi dovevano dominarlo questo campionato. In più, Lewandowski è il capocannoniere di squadra con ben 30 gol totali, soppiantando di fatto Barrios, fuori quasi tutto l'anno per infortunio.
La cosa che stupisce di più di tutto questo modello è la sostenibilità economica: la spesa massima è stata quella compiuta per Perisic, con 5 milioni dati al Club Brugge.



Insomma, il Dortmund sembra aver trovato anche la continuità. E già programma per l'anno prossimo: a Febbraio  si sapeva già che Marco Reus, il "piccolo mago" dell'altro Borussia, tornerà a Dortmund quest'estate per la modica cifra di 17.5 milioni di euro. Tutto ciò per sostituire formalmente Shinji Kagawa: il giapponese, in scadenza nel 2013, ha deciso che non rinnoverà il contratto e per lui è quasi cosa fatta l'accordo con il Manchester United di Sir Alex Ferguson, che era in tribuna per la finale di Coppa di Germania tra il BVB ed il Bayern. In più, Barrios è già su un aereo per la Cina, dove giocherà per il Guangzhou Evergrande. E bisognerà vedere se i gialloneri resisteranno agli assalti delle grandi d'Europa per Mario Gotze, uno che all'Europeo di quest'estate farà vedere di cosa è capace.

Vedendo tutto ciò che ha realizzato il Dortmund in questi due anni, sappiamo che sapranno andare oltre queste partenze: anzi, attenti nella prossima Champions. Chiunque li beccherà, passerà 90 minuti difficilissimi.

Sebastian Kehl, 32 anni, alza la DFB-Pokal 2012 insieme ai suoi compagni.

15.5.12

Verso il nuovo mondo.

E' proprio vero che il nuovo attira sempre qualcuno: una regola che nel calcio non viene meno. Ancor più di questi tempi, in cui c'è la "crisi" ed un contratto milionario, coniugato ad un'esperienza lontana, può regalarti nuova linfa economica più che sportiva. Solo così si può spiegare ciò che accade ultimamente nel calcio mercato attuale: la Cina sta esplodendo non solo come potenza industriale, ma anche come calcistica.

No, non ci riferiamo alla nazionale: questa continua a navigare in acque torbide. Ad oggi, già sappiamo che la nazionale cinese non ci sarà ai Mondiali del 2014. Anche il più disinformato del calcio moderno non fa fatica a chiedersi come sia possibile che da una popolazione di un miliardo di persone non si riesca a tirare fuori 22 giocatori decenti per le qualificazioni asiatiche. Certo, il dubbio c'è. Anche perché alla guida della Cina c'è José Antonio Camacho, ex C.T. spagnolo, ex allenatore del Real Madrid a periodi alterni, che non avrà conquistato praticamente nulla nella sua carriera (solo una coppa di Portogallo), ma qualcosa potrà insegnare a questi giovanotti poco pratici di questo gioco chiamato calcio. Lo conferma anche il fatto che la Cina ha partecipato, in tutta la sua storia, ai Mondiali: quelli del 2002, prendendo 9 gol e perdendo tutte e tre le partite del girone contro Brasile, Costa Rica e Turchia. E anche guardando i risultati della Coppa d'Asia, non ci sono vittorie: solo due secondi posti e due terzi.

Ma il vero motivo di rinascita del calcio cinese sta diventando la massa di campioni che decide di andare a giocare lì. Attenzione però: non si tratta di giocatori che, sul finire dei loro anni, decidono di andare a svernare a suon di quattrini; stiamo parlando di giocatori, invece, che sono nel pieno della loro attività e che decidono di andare a guadagnare molti "dindi" per giocare in campionati o coppe in cui stra-dominano, vista la loro classe.
Cosa c'è di sbagliato in tutto questo? Sostanzialmente, nulla. Però la cosa è quanto meno curiosa, proprio perché parliamo di giocatori che avrebbero da dare tanto al calcio europeo. Non è chiaramente un fenomeno nuovo questo, ma è la prima volta che è così straripante fuori dall'Europa e porta via giocatori che non ci saremmo mai aspettati di vedere altrove. Ricostruiamo un po' di storia.

In principio, fu il Sol Levante. La J-League, prima divisione giapponese d'oggi (che compie in data odierna 20 anni di vita: auguri), nasce nel 1993 sulle ceneri della Japan Soccer League, formata all'epoca da club amatoriali, con pochi fan, campi in pessime condizioni e giocatori che non davano un gran contributo alla crescita della nazionale giapponese. Giappone che, all'epoca, era fuori dal range del potenze asiatiche del calcio. Così, si decise di creare questa lega professionistica, per attrarre più fan ed aiutare la nazionale a migliorare: 10 club a sfidarsi per la conquista della J-League e, in più, la nascita della Yamazaki Nabisco Cup, coppa che si affiancò alla già esistente Coppa dell'Imperatore. La prima stagione portò in Giappone ottimi giocatori, come Zico, Pierre Littbarski, Sergei Aleinikov (passato anche per Italia con Juve e Lecce), Gary Lineker, Michael Rumenigge, Uwe Rahn e Ramon Diaz. Oltre a questi, altri due casi limite da menzionare: un giovanissimo Marcio Amoroso in prestito per un anno al Verdy Kawasaki - senza peraltro mai giocare - e Alcindo Sartori. Molti non lo conosceranno, dato che la sua carriera al di fuori dei confini nipponici è stata praticamente nulla; in Giappone, invece, rimarrà un eroe sopratutto per i tifosi dei Kashima Antlers. Lui e Zico faranno sfaceli in coppia ed il biondo capellone brasiliano segnerà ben 45 gol in due anni di competizioni giapponesi. Altri poi arriveranno ed aiuteranno il Giappone a crescere, portandolo oggi ad essere una squadra presente ai Mondiali da quattro edizioni consecutive.

I tifosi degli Yokohama Marinos alla prima partita mai disputata in J-League del 1993.


C'è stato poi il Qatar e, in generale, il mondo arabo, che tutt'oggi rappresenta una meta per alcuni calciatori. Tanti sono gli esempi da portare alla memoria, poiché c'è stata una marea di giocatori capace di trasferirsi in quelle terre per finire gli ultimi anni della propria carriera: Batistuta, Guardiola, LeBouef, Sonny Anderson, Desailly, Juninho Pernambucano, Cannavaro e - da questa settimana - anche Raul, che ha lasciato lo Schalke per trasferirsi nell'Al-Sadd. Riccardo Trevisani faceva notare una curiosa analogia a riguardo: camiseta blanca come quella del Real, di nuovo il numero 7.. mancava veramente solo Madrid e sarebbe stato come tornare ai tempi andati.
Va detto che questo processo di rinvigorimento delle leghe calcistiche arabe non sta portando chissà quali risultati: il Qatar ha ottenuto l'organizzazione del Mondiale del 2022, ma di tempo ce ne vorrà per sistemare una nazionale che ha - come massimo risultato della sua storia - due quarti di finale nella Coppa d'Asia, di cui l'ultimo raggiunto proprio nell'edizione casalinga dell'anno passato. Un po' poco. Intanto, l'Arabia Saudita crolla nei ranking ed è anch'essa già fuori dalle qualificazioni per il Mondiale del 2014.

Raul Gonzalez Blanco, 35 anni, durante la sua presentazione all'Al-Sadd.


A tentare lo stesso salto calcistico, ma con molti meno soldi a disposizione rispetto ai team cinesi, è l'I-League, la nuova lega professionistica indiana rimodernata appositamente quest'anno. Creata nel 2007, finora non ha portato i benefici sperati: non sono arrivati molti giocatori stranieri, benché meno famosi. Si è parlato in Gennaio del possibile arrivo di giocatori come Cannavaro, Pires, C. Lucarelli, Crespo, ma ancora non se ne è fatto nulla. In attesa di nuovi eventi, la nazionale indiana è riuscita a riqualificarsi alla Coppa d'Asia dopo tanto tempo, seppur uscendo nella fase dei gironcini.

Sunil Chhetri, 27 anni, capitano della nazionale indiana, a segno durante la Coppa d'Asia 2011.


Arriviamo quindi al punto di partenza: perché la grande Cina? La risposta è evidente solo snocciolando alcuni dati e prendendo alcuni esempi.
Partiamo da Cleo, centravanti brasiliano che nel 2010/2011 fa vedere quanto vale con il Partizan. Personalmente, ne rimasi impressionato, ricordava in molte cose Radamel Falcao, seppur proporzionalmente meno forte. Il ragazzo, classe 1985, fa 42 gol in due anni di Partizan: un ottimo dato, visto che quel Partizan non era certo una squadra di fenomeni. Ancor più grandioso pensando che ben 16 di questi gol sono europei. Cleo avrebbe potuto probabilmente  strappare un nuovo contratto in una buona squadra; invece, nel Feb. 2011, annuncia di aver firmato un accordo con il Guangzhou Evergrande, squadra della Chinese Super League, per 3.2 mln. di euro. Risultato? 16 gol in 25 presenze e dominatore d'area di rigore. Un peccato, verrebbe da dire.
Stessa squadra, altro giocatore promettente: Dario Conca, trequartista argentino, eletto per ben due anni consecutivi miglior giocatore del campionato brasiliano con la maglia del Fluminense. Nel Lug. 2011, anch'egli annuncia il passaggio all'Evergrande, per la "modica" cifra di 10 milioni di euro, con un salario al giocatore di 10 milioni.. di dollari! Anche qui, abbiamo un giocatore poi straripante rispetto agli altri: 14 gol in 21 partite, media alta per un centrocampista come Conca.
Infine, abbiamo l'ultimo esempio tangibile: Lucas Barrios. Centravanti del Borussia Dortmund, naturalizzato paraguaiano, il ragazzo aveva realizzato ben 44 gol in 77 presenze con la maglia dei gialloneri nel periodo 2009-2011. Quest'anno, causa un infortunio e la crescita di Robert Lewandowski, è stato relegato alla panchina; inoltre, l'argentino naturalizzato aveva chiesto lumi riguardo un possibile aumento d'ingaggio. Una volta negatogli dal BVB, se lo è andato a cercare altrove: sempre l'Evergrande compie l'acquisto per 8.7 mln. d'euro e Barrios guadagnerà 6.7 milioni (!) di euro per i prossimi quattro anni.
E questi sono solo i più evidenti tra quelli portati a termine, oltre ad Anelka, Rochemback, Muslimovic, tutta gente che in Europa ha fatto le sue esperienze. E non mancano le voci che portano ad offerte addirittura a Drogba e Kakà, per non parlare di coloro sicuramente si aggiungeranno alla pattuglia di calciatori stranieri in Cina, come Pranjic. Insomma, è presto, ma vedremo se questo import costoso porterà qualche export buono per portare la nazionale cinese a qualche mondiale.

Lucas Barrios, 27 anni, durante la presentazione al Guangzhou Evergrande.

14.5.12

Il bello, il brutto ed il tragico.

Ci sono domeniche che non si possono dimenticare. Non è stata da meno quella appena passata, nella quale si sono condensate emozioni diverse sul panorama europeo: sorprese, addii, drammi (chiaramente sportivi). Guardando tre fra i campionati più importanti al mondo, si può capire come questo 13 di Maggio dell'anno corrente abbia regalato grandi storie da raccontare e consegnare agli almanacchi calcistici.

Tutto parte da Manchester: è lì dove il bello (e la follia) del calcio si manifesta in tutta la sua esplosività. Nell'ultima giornata di Premier League, le due squadre di Manchester si giocano il campionato: il City gioca in casa contro il perciolante QPR, lo United va in trasferta sul campo di un Sunderland che non più nulla da chiedere a questo campionato. Il primo tempo rispecchia l'andamento che ci si aspettava: 1-0 su entrambi i campi, sempre a favore delle due squadre di Manchester, con i gol rispettivamente di Zabaleta e Rooney. Ma se a Sunderland non succede più nulla di significativo, i SuperHoops si scatenano all'Etihad Stadium. Si devono salvare ed il Bolton, che sta vincendo sul campo dello Stoke, li supererebbe e li condannerebbe alla retrocessione in Championship. Così - nonostante l'ennesima brava con conseguente espulsione di Joey Barton - prima Djibril Cissé, poi Mackie portano in vantaggio il QPR, facendo sprofondare nel dramma i tifosi del City: onestamente, 44 anni attesi per prendere poi una fregatura del genere.. sarebbe tragico. Ed i miracoli di Paddy Kenny non aiutano. Fortunatamente per loro, ci sono alcune regole che nel calcio non sono scritte, ma valgono sempre: il Bolton viene raggiunto dallo Stoke proprio mentre Dzeko pareggia i conti al 90'. Mark Hughes, tecnico del QPR, fa segno che è tutto finito: sono salvi. E allora, nell'assalto all'arma bianca portato dai Citizens, un (fino a lì) orribile Aguero s'inventa la giocata della vita e segna il 3-2 che consegna la Premier League nelle mani della squadra di Mancini. Un momento straordinario, un momento di storia, uno di quelli che ti lascia il segno e, se vissuto, lo racconti ai tuoi nipoti 50 anni dopo. Dopo aver rischiato una replica del 5 Maggio di memoria interista, arriva una fine straordinaria per un campionato bello come pochi nella storia.


Sempre parlando di conclusioni, anche il campionato italiano è giunto al termine. Parlando della Serie A, però, vogliamo concentrarci su due personaggi più che sui risultati sportivi della giornata odierna: Alessandro Del Piero e Filippo Inzaghi. Entrambi hanno già deciso che continueranno, anche se non sarà con le maglie di Juventus e Milan rispettivamente: un peccato per i tifosi di queste due squadre, che vedranno i loro beniamini giocare altrove. Ma, intanto, lasciano entrambi nei loro stadi, con le lacrime agli occhi di molti fan e la capacità di regalare ancora magie: il solito destro a giro per Del Piero, un altro gol di rapina e fiuto d'area di rigore per Inzaghi. Se Del Piero è stato decisivo nello scudetto juventino, seppur in piccola parte, con gol come quello all'Inter, Inzaghi, anche giocando pochissimo, ha evitato di restare a secco anche quest'anno, nonostante 38 anni, poco campo e l'esclusione dalla lista della Champions League. Un affronto per un bomber europeo come lui.
Lo stadio di Torino, dall'uscita di Del Piero, non ha più seguito la partita, preferendo assistere al giro di campo del capitano juventino: due mondi paralleli, in cui quello contenente Del Piero importava di più di quello avente per protagonisti i 22 in campo. Al gol di Inzaghi, invece, grandi le lacrime: la partita con il Novara non significava nulla, quel gol invece valeva anni di vittorie e di emozioni regalate dal numero 9 milanista. 11 anni di maglia rossonera onorati benissimo: su tutto, rimarranno i due gol di Atene ed una finale vinta praticamente da solo.
Due miti che ci mancheranno per la loro capacità d'essere decisivi.

Filippo Inzaghi, 38 anni, e Alessandro Del Piero, 37, salutano i fan di Milan e Juve.

Di decisiva, inoltre, c'è stata l'ultima giornata in Liga. Che fosse un anno più pazzo degli altri, ce ne eravamo già accorti: il Real è riuscito a spodestare il Barca, il Levante ha conquistato l'Europa con una squadra dall'età media altissima ed il Malaga degli sceicchi è riuscito a centrare la Champions League, via preliminari, al primo colpo. Ma quel che abbiamo visto al Madrigal di Vila-Real ieri è incredibile: usando un paragone calcistico strettamente spagnolo, si è ripetuto ciò che era già successo al Real Zaragoza nel 2007/2008, ovvero una retrocessione incredibile di una squadra che, ad inizio stagione, era stata data pronta per altri obiettivi. Allargando lo sguardo europeo al passato recente, viene in mente la retrocessione della Sampdoria nella stagione passata. Qui, però, c'entrano poco le vicende di mercato: Giuseppe Rossi è stato fuori tutto l'anno, Nilmar non è stato incisivo e si è poi infortunato anche lui. La squadra si è sciolta come neve al sole, per tutto l'anno non si è mai seriamente tirata fuori dalla zona retrocessione e, nell'ultima partita, ha ricevuto la beffa nel finale: il gol di Falcao all'88' gli ha fatto perdere la partita, quello del Rayo di Tamudo al 91' gli ha fatto perdere la Liga. Una stagione fallimentare certificata anche dalla precoce eliminazione in Copa del Rey (da parte della sorpresa Mirandes) e dalla tremenda campagna europea: passato il preliminare con l'Odense, nel famoso girone di ferro (Napoli, Man City, Bayern Monaco), il Villareal ha totalizzato 0 punti, con appena 2 gol fatti e 14 incassati. Inutile dire che è incredibile tutto ciò.
E' ancor più incredibile pensando alla storia di questa squadra, che ha sede in una cittadina di 50.000 abitanti: il Villareal è arrivato in Liga nel 1998 e, escludendo la stagione 1998/1999, è sempre riuscita a salvarsi. Non solo: dal 2003 non è mai andata sotto l'8° posto, con un secondo, un terzo ed un quarto posto negli ultimi anni; ottimi anche i risultati europei, con tre semifinali europee (in UEFA nel 2004 e nel 2011, in Champions nel 2006, con il famoso rigore sbagliato da Riquelme contro l'Arsenal). Insomma, una granitica certezza costruita con la programmazione. Che ha fallito clamorosamente quest'anno, tanto da retrocedere.

Il capitano del Villareal, Marcos Senna (35 anni), piange dopo la retrocessione del Villareal.

Ma forse è anche per questo che ci piace il calcio: perché imprevedibile, fuori dagli schemi e capace di regalarci emozioni come poche altre cose nella vita.

12.5.12

La fretta è cattiva consigliera.

Non c'è stato nulla da fare: nonostante gli appelli di giocatori e società a rimanere, Luis Enrique saluta la capitale e la squadra giallorossa. Lo fa con una gara d'anticipo. Non che la partita di domenica a Cesena avesse qualche significato per la Roma, già fuori dall'Europa dell'anno prossimo. Ma il segnale è stato forte: quello di un uomo che è provato proprio dallo stress della capitale e del campionato italiano piuttosto che dai risultati.

Luis Enrique, classe 1970, non ce la faceva più. Tutto qui. Arrivato nell'estate romana del 2011, tra grandi attese e speranze di eguagliare ciò che era ed è stato il Barcellona di Guardiola, il tecnico spagnolo aveva nel suo curriculum un'esperienza di serie inferiore in Spagna, ma che faceva sognare: egli aveva allenato il Barcellona B, la squadra del vivaio "barcelonista", dove sono cresciuti i vari Xavi, Iniesta e Messi. La stessa squadra di cui si era occupato Guardiola nel periodo pre-Barcellona. E che lo stesso Luis Enrique aveva condotto a buoni risultati, come la promozione dalla Segunda Division B (la nostra Lega Pro Prima Divisione) alla Segunda (la nostra Serie B) ed il conseguente terzo posto l'anno successivo. Unico peccato? Il Barcellona B non potrà mai salire in Liga perché creerebbe un conflitto d'interessi con il Barcellona: insomma, una promozione sul campo che tale non è stata nelle classifiche. Vista così, mi sembra addirittura di poter dire che il Barcellona B di Luis Enrique era di gran lunga migliore di quello di Pep Guardiola. Piccola soddisfazione, ma indiscutibile.

Ma tutto questo è bastato per attirare l'attenzione della Roma, dei nuovi proprietari americani e dei navigati Franco Baldini e Walter Sabatini. Nella presentazione, è ben chiara l'intenzione della società: creare un progetto. Forse è proprio su questo che molti si sono incaponiti e non hanno ben chiaro il perché Luis Enrique dovesse, probabilmente, rimanere. Ma lo spiegherò più avanti.
La campagna acquisti è da sufficienza stiracchiata: per carità, di soldi se ne spendono tanti, ma senza alcun criterio. Arrivano Stekelenburg, Kjaer, Heinze, José Angel, Gago, Marquinho, Pjanic, Lamela, Bojan, Osvaldo, Borini: di questi, se ne salveranno 3-4 nonostante una stagione chiaroscura e piena di tante mazzate. Che non esitano ad arrivare fin dall'estate: prima la clamorosa eliminazione da parte dello Slovan Bratislava nei preliminari di Europa League, poi la sconfitta alla prima di campionato all'Olimpico contro il Cagliari. Da lì in poi, sarà uno sali e scendi, con punte d'entusiasmo puntualmente stroncate da mazzate di valore epico: la Roma è riuscita - quest'anno - a vincere quasi tutte le partite contro le piccole, come una grande squadra dovrebbe fare. Peccato che poi, se analizziamo gli scontri diretti contro le squadre che stanno davanti ai giallorossi, il risultato sia impietoso: 1 punto con la Juve, 0 con il Milan, 3 con l'Udinese, 0 con la Lazio. Solo con Inter e Napoli (4 punti) il bilancio si può dire positivo. E comunque, fanno 8 punti in 12 partite contro le squadre che stanno davanti. Non si può puntare a qualcosa con questo ruolino di marcia.

In più, le difficoltà di Luis Enrique sono state, ancor più che tecniche, di tipo ambientale: i forti contrasti con il capitano Francesco Totti nelle prime fasi del suo mandato come allenatore; in più, alle prime sconfitte, la piazza (notoriamente poco paziente) ha reagito male e sono partiti prima i fischi, poi le contestazioni. E qui è mancata la "contestualizzazione" della situazione. Le critiche sono piovute sopratutto addosso all'allenatore, che sicuramente deve fare esperienza, ma che ha dato il massimo in termini di impegno, lavoro e dedizione alla causa. E che ha gestito questa stagione con una rosa larga, ma incompleta in alcuni ruoli (vedi terzini). Non si può certo disputare un buon campionato alla prima esperienza professionistica al di fuori dei confini iberici con questo materiale tecnico. Infine, anche i derby persi (due sconfitte nello stesso anno non arrivavano dal 1997/1998) ed il suo essere particolare nella gestione delle relazioni con i giornalisti non lo ha aiutato.


Al di là dell'intenzione goliardica nel video (che, giornalisticamente parlando, non mi riguarda), è chiaro che è un personaggio particolare. Come Mourinho. L'unica differenza è che un allenatore che si deve ancora formare e che, quindi, non ha potuto avere un credito di pazienza da parte della più importante componente della Roma: i tifosi. Che sicuramente posso dire siano stati più pazienti di altri anni, ma che hanno comunque avuto difficoltà ad accettare l'etichetta del progetto. E qui torniamo al punto iniziale e più importante di questa vicenda.

Quando i nuovi proprietari americani, Sabatini e Baldini, lo stesso Luis Enrique parlavano di progetto sin dall'inizio della stagione, la mia impressione è stata subito quella che il buon Luigi Enrico non sarebbe durato molto. A Roma, non c'è pazienza, calcisticamente parlando. E sia ben chiaro, non è una caratteristica unicamente a tinte giallorosse: è un tratto distintivo delle due tifoserie della capitale. Basti pensare al fatto che Reja è stato fischiato diverse volte in questi due anni, nonostante dei risultati eccellenti con la Lazio. Visto il disastro di quest'anno, a Luis Enrique era meglio concedere una seconda chance: con un gruppo che si conosceva da un anno, con delle tattiche che si sarebbero perfezionate e due-tre giocatori come si deve, la Roma avrebbe potuto fare un'ottima stagione l'anno prossimo, dato che - probabilmente - sarà anche senza coppe europee da disputare.

Insomma, la fretta è sembrata una cattiva consigliera. Personalmente, auguro a Luis Enrique ogni bene. C'è da dire che l'Italia gli è indigesta: prima la gomitata di Tassotti ai Mondiali del 1994, ora quest'anno tribolato a Roma..


Luis Enrique, 41 anni, nel giorno dell'esordio in Serie A contro il Cagliari.



10.5.12

Un diavolo di Cafetero.

L'ha fatto ancora una volta. Ancora in Europa League. Si è dimostrato il migliore numero 9 in circolazione e quel che sorprende è che ci riesce con una facilità disarmante: questo è Radamel Falcao.

Fino a due anni fa sconosciuto ai più, arrivato al Porto in punta di piedi, il colombiano si è imposto negli ultimi due anni come il fenomeno che tutti vorrebbero acquistare, ma che pochi possono permettersi. Basti pensare che l'Atletico Madrid l'ha preso per 45 milioni di euro dal Porto, grazie alle cessioni eccellenti di Aguero e DeGea in quel di Manchester. Mai soldi sono stati spesi meglio dalle parti del Vicente Calderon.

Certo, qualcuno potrebbe rammentarmi che Aguero e Forlan sono stati altri due grandi colpi, neanche troppo recenti, dei colchoneros: per carità, nessun dubbio a riguardo. Ma l'operazione Falcao è qualcosa di più grande. Che Aguero fosse talentuoso per avere 20 anni quando arrivò a Madrid, lo sapevano tutti; che Forlan fosse un grande campione, preso dal Villareal dopo 3 anni di grandi cose, era noto ai più. Ma per Falcao alcuni dubbi c'erano: le magie al Porto erano farina del suo sacco o il buon Villas-Boas ci aveva messo del suo, facendogli girare attorno tutta la squadra?

La risposta è arrivata ieri. Diamine, l'intera stagione è stata buona: Falcao è probabilmente la ragione per cui l'Atletico - al tempo in cui scrivo - è ancora in corso per l'ultimo posto buono per l'ingresso in Champions League dalla porta di servizio dei preliminari. Ma, nonostante i suoi gol, qualcuno a Madrid non aveva ancora capito perché spendere tutti quei soldi per il colombiano: ieri c'è stata una risposta che più chiara non si poteva dare.



Inutile dire che il ragazzo aveva ampiamente dimostrato già l'anno scorso quanto valeva: con il Porto, Falcao ha realizzato durante il 2010/2011 la bellezza di 38 gol in 42 presenze! 18 di questi (in 16 presenze) li aveva realizzati nell'Europa League, competizione che il Porto ha vinto l'anno scorso e di cui Falcao ha stabilito il record di marcature in una singola edizione. Ma molti, come detto prima, ritenevano l'exploit dovuto al grande sistema di gioco impostato da Villas-Boas.
Smentita secca quest'anno: 35 gol (finora) in 47 presenze, di cui 12 nell'Europa League che il colombiano ha rivinto ieri sera con la squadra di Madrid. Qualche cosa è in effetti cambiato.

Se l'anno scorso, Falcao sembrava il tipico numero 9, grande finalizzatore ma incapace di costruirsi da solo l'azione da gol, quest'anno la musica è cambiata: i due gol di ieri ed altri durante la stagione sembrano dimostrare che il colombiano sia cresciuto ulteriormente dal punto di vista tecnico. Tanto da farmi dire che, in questo momento, è il centravanti numero 1 al mondo: uno che fa queste cose non c'è in giro. E, nella mia giovane memoria, ricordo centravanti del genere solo in Fernando Torres (quello del Liverpool) e Ruud Van Nistelrooy. L'unica differenza rimasta tra questi due mostri e Falcao è che i primi due erano in grado di crearsi il gol anche da fuori dall'area di rigore, porzione di campo in cui il Cafetero deve ancora migliorare.

Ma c'è tempo. Radamel Falcao Garcìa Zarate è un gran giocatore e, personalmente, spero di vederlo ancora segnare gol del genere. La chiusura la dedico alla nazionale colombiana: cosa potranno mai combinare con un attacco con Falcao, James Rodriguez, Ibarbo, Muriel, Cuadrado e Jackson Martinez? Che possano dominare le qualificazioni sudamericane? Per ora, hanno fatto 4 punti in 3 partite. Inutile dire che mi aspetto di più.

Se hanno poi un diavolo di Cafetero, è lecito attendersi di più.